L’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza entra in una nuova fase. Dopo mesi di scontri e negoziati falliti, il premier Benjamin Netanyahu ha annunciato un’intensificazione delle operazioni militari. «Abbiamo cambiato marcia nella Striscia», ha dichiarato, confermando l’intenzione di aumentare la pressione su Hamas e sugli altri gruppi armati palestinesi.
Gaza, l’offensiva israeliana accelera
Il teatro delle operazioni non si limita più a Gaza. Nelle ultime ore, le forze israeliane hanno ampliato i bombardamenti anche in Siria, colpendo postazioni ritenute legate a Hezbollah e ad altre milizie sostenute dall’Iran. La strategia, dichiarata o meno, è chiara: colpire simultaneamente Hamas e i suoi alleati regionali per fiaccarne la capacità operativa e costringerli a un negoziato in posizione di debolezza.
L’escalation ha un prezzo alto, come sempre. Nella notte, un raid aereo israeliano ha colpito una clinica dell’Unrwa a Gaza City. Il bilancio è pesante: almeno 19 morti. Secondo Israele, la struttura era utilizzata da Hamas come centro di comando. La versione è stata smentita dall’agenzia dell’Onu e dalle autorità palestinesi, ma resta il dato di fatto: la popolazione civile continua a pagare il costo della guerra.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha espresso «sconcerto» per l’uccisione di paramedici e operatori sanitari. Un rituale di condanna che però non modifica l’equilibrio sul terreno. Netanyahu, in conferenza stampa, ha spiegato che «l’obiettivo è aumentare la pressione passo dopo passo, affinché i nostri ostaggi tornino a casa». È la linea dura che il governo israeliano ha scelto fin dall’inizio dell’operazione, nonostante i ripetuti appelli internazionali a un cessate il fuoco.
La trattativa per una tregua sembra destinata a un nuovo stallo. Hamas ha respinto l’ultima proposta israeliana, definendola «inaccettabile». Il movimento palestinese sostiene che Tel Aviv punti a guadagnare tempo senza reali intenzioni di negoziare. La posizione israeliana resta rigida: nessun cessate il fuoco permanente senza il rilascio degli ostaggi e lo smantellamento delle infrastrutture di Hamas.
Il bilancio di questa nuova fase del conflitto è già pesante. Fonti palestinesi parlano di oltre 600 morti in pochi giorni, per lo più civili. Migliaia i feriti, decine di migliaia gli sfollati. La Striscia, già piegata da anni di embargo, è allo stremo: mancano acqua, elettricità, medicinali. Gli aiuti umanitari arrivano con il contagocce, bloccati ai valichi o ostacolati dai combattimenti.
A livello geopolitico, la mossa di Netanyahu rischia di allargare ulteriormente il conflitto. I raid in Siria rappresentano un chiaro messaggio a Teheran e agli attori regionali che sostengono Hamas e Hezbollah. La guerra in corso non è più soltanto tra Israele e Gaza: si inserisce in una partita più ampia, che coinvolge Iran, Siria, Libano e, indirettamente, le potenze occidentali.
Gli Stati Uniti, principali alleati di Israele, hanno invitato alla «massima moderazione», un richiamo rituale che difficilmente fermerà l’operazione. Anche l’Unione Europea ha espresso preoccupazione, ma senza prospettive concrete di intervento o mediazione.
Sul terreno, la prospettiva di un cessate il fuoco appare lontana. L’obiettivo strategico di Israele resta la neutralizzazione di Hamas, ma il prezzo umano e politico dell’operazione rischia di aumentare esponenzialmente.
Un conflitto che rischia di trasformarsi, ancora una volta, in guerra regionale.