C’è un dato che spaventa più degli altri, che scava nel cuore come una lama sottile e fredda: le vittime di femminicidio in Italia sono sempre più giovani. Ragazze, studentesse, poco più che bambine. È come se la violenza si fosse fatta precoce, avesse allungato le mani sui primi battiti d’ali della libertà femminile. I nomi sono quelli che ormai, tristemente, abbiamo imparato a conoscere: Giulia Cecchettin, Ilaria Sula, Sara Campanella. Vite interrotte appena cominciate, sogni spezzati quando ancora dovevano diventare realtà.
Il silenzioso massacro delle più giovani
Non è un caso, non è una tragica coincidenza. Lo ha spiegato con parole chiare, senza sconti, Cristina Ercoli, responsabile di "Differenza Donna", ai microfoni del Tg La7. La sua voce, ferma ma intrisa di sgomento, racconta di un fenomeno che cresce nell’indifferenza generale, tra le pieghe di una società che continua a fingere di non vedere.
«Sempre più ragazze ci chiamano al 1522» dice Ercoli. Ragazze, compagne di scuola, amiche. Dodicenni, tredicenni che alzano il telefono e chiedono aiuto perché avvertono, nella loro breve esperienza, che qualcosa non torna. Che l’amore che viene loro raccontato, quello che vedono e che subiscono, sa di possesso e di prigione.
Dietro queste telefonate c’è l’assenza di un mondo adulto che ha abdicato al suo ruolo. Famiglie distratte, insegnanti lasciati soli, padri e madri che delegano alla scuola, ai social, alla rete, il compito di educare i figli all’affettività. I ragazzi crescono senza strumenti, senza parole per chiamare le cose con il loro nome. E quando si trovano a vivere le prime relazioni, lo fanno ripetendo, senza saperlo, un copione già scritto: quello della prepotenza, del dominio, della paura.
Ercoli lo dice chiaramente: nelle scuole, quando si parla di violenza sulle donne, i ragazzi ridono, si imbarazzano, cambiano discorso. Non è cattiveria, è ignoranza. È il frutto di una cultura che da sempre minimizza, che non insegna a riconoscere la differenza tra amore e possesso. E intanto, i dati si fanno macigni: sempre più femminicidi, sempre più giovani le vittime.
Il terreno su cui cresce questa violenza è vischioso e infido. È un immaginario erotico colonizzato dalla pornografia, che riduce la relazione a un esercizio di potere, di sopraffazione. Le ragazze devono compiacere, i ragazzi devono possedere. Una narrazione tossica che si insinua nelle pieghe della quotidianità, che plasma desideri e aspettative.
Poi ci sono le storie concrete, quelle che inchiodano tutti alle proprie responsabilità. Ilaria Sula, ventidue anni, studentessa a Roma, trovata senza vita in una valigia. Un ex fidanzato che confessa, senza un lampo di pentimento nello sguardo. Sara Campanella, stessa età, stessa voglia di vivere, uccisa a coltellate a Messina da un compagno di corso, uno che avrebbe dovuto condividerne sogni e paure e invece le ha tolto tutto.
Non sono casi isolati. Sono il sintomo di una malattia che attraversa la nostra società, che cresce nell’indifferenza, nella distrazione, nella mancanza di parole e di coraggio. Perché la violenza non nasce dal nulla. Ha radici profonde, che affondano nella disparità, nell’assenza di educazione sentimentale, nell’incapacità di costruire relazioni basate sul rispetto reciproco.
Cristina Ercoli lancia un appello che è un monito e insieme una richiesta di assunzione di responsabilità: «Dobbiamo sentirci in dovere, come adulti, di accompagnare i giovani verso relazioni sane, positive, capaci di costruire una società migliore». Non basta piangere le vittime a cose fatte. Non basta indignarsi per qualche giorno e poi tornare a scrollare lo schermo come se nulla fosse. Serve uno sforzo collettivo, quotidiano, faticoso. Un lavoro silenzioso, fatto di ascolto, di attenzione, di educazione.
Giulia, Ilaria, Sara non sono solo nomi di cronaca. Sono figlie, sorelle, amiche. Sono quello che avremmo potuto essere tutte noi, in un giorno sbagliato, in un incontro sbagliato. Non possiamo più permetterci di ignorarle, di voltare lo sguardo. Perché ogni volta che una giovane donna viene uccisa, non muore solo lei: muore un pezzo della nostra umanità, della nostra capacità di prenderci cura degli altri.