La piazza è piena. Le voci si spengono una a una davanti alla chiesa, come se il silenzio fosse l’unico linguaggio possibile. Misilmeri trattiene il fiato per l’ultimo saluto a Sara Campanella, ventidue anni, universitaria, assassinata da chi diceva di amarla. La sua bara bianca attraversa la folla sulle spalle degli amici, giovani come lei, vestiti di bianco anche loro, con una scritta nera sul petto che è una dichiarazione di intenti: “No violenza”. Non basta, ma è tutto quello che resta quando non si sa più cosa dire.
Il funerale di Sara Campanella è un grido d’amore contro la morte
Una foto di Sara tra le mani dei suoi familiari, un palloncino rosa a forma di cuore con una frase che lei ripeteva spesso, quasi un mantra: “Mi amo troppo per stare con chiunque”. Scritto così, semplice e feroce, come sanno essere le verità che si imparano presto. È questo che Sara portava con sé, una coscienza piena del proprio valore. Ed è forse proprio questo che le è stato negato: il diritto a scegliersi, a salvarsi, a vivere per intero la propria vita.
Oggi quella frase vola sopra la piazza, attraversa le telecamere, le bacheche sociali, i notiziari. Diventa una preghiera laica, un grido sommesso ma ostinato. Diventa la voce di tutte le ragazze che hanno avuto paura, di tutte le donne che sono sopravvissute, di tutte quelle che non ci sono più. Ogni femminicidio ha un prima e un dopo. Il prima sono le richieste d’aiuto, i segnali ignorati, i tentativi di fuga. Il dopo è un funerale, una città in lutto, e un Paese che finge di non sapere.
A Roma, alla Sapienza, le lezioni si fermano per ricordare Ilaria Sula. Un’altra studentessa, un’altra giovane donna uccisa da chi la voleva solo per sé. Un’altra storia che somiglia troppo a questa, e a tutte le altre. I corridoi dell’università restano vuoti, ma non muti. C’è chi scrive un cartello, chi appende un disegno, chi lascia un fiore: piccoli gesti, come sassi bianchi sul ciglio di una strada percorsa da troppe croci.
Siamo abituati a sentirci dire che queste sono tragedie private, atti folli, mostri isolati. Ma la verità è che il mostro è tra noi, cammina con noi, parla come noi. Ha i nostri volti, le nostre parole. È l’idea che una donna che sceglie se stessa sia colpevole. È il giudizio sul vestito, sull’orario, sull’autonomia. È quel “ti amo” che si trasforma in prigione, in minaccia, in condanna.
Oggi Sara ci parla ancora. Ci guarda dalla foto che i genitori stringono tra le mani, dalla sua frase scritta sui palloncini, dalle magliette dei suoi amici. E ci dice che l’amore vero non uccide, non punisce, non incatena. L’amore vero lascia liberi. Perché amare è prima di tutto permettere all’altro di essere se stesso. E lei lo sapeva. Lo sapeva troppo bene, forse.
Questo funerale è un atto politico. Ogni passo che accompagna il feretro è una marcia. Ogni lacrima è un voto di resistenza. Non possiamo più dire che non lo sapevamo. Non possiamo più restare a guardare. Sara voleva vivere. Voleva studiare, viaggiare, ridere. Voleva amarsi abbastanza da non accontentarsi di chiunque. Voleva salvarsi. Non ce l’ha fatta, ma ci ha lasciato un’eredità. Ora tocca a noi non tradirla.