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Ricostruzione Ucraina, duello Usa-Ue sugli asset russi

- di: Vittorio Massi
 
Ricostruzione Ucraina, duello Usa-Ue sugli asset russi
Ricostruzione Ucraina, duello Usa-Ue sugli asset russi
Dai 200 miliardi congelati al mega data center a Zaporizhzhia: il piano di Trump che spacca l’Occidente tra chi vuole riaprire a Mosca e chi punta a far pagare il conto al Cremlino.

La guerra in Ucraina è entrata nella fase in cui le mappe economiche contano quanto quelle militari. Sul tavolo non ci sono solo confini, ma la gestione di oltre 200 miliardi di dollari di asset russi congelati, il futuro della ricostruzione ucraina e, soprattutto, il ruolo che la Russia avrà nell’economia globale dopo il conflitto.

Al centro dello scontro ci sono Stati Uniti ed Europa, formalmente alleati, ma oggi divisi da visioni quasi opposte. Da un lato la nuova amministrazione Trump immagina un grande affare globale che coinvolga Wall Street e, a tappe forzate, riporti Mosca nel circuito economico occidentale. Dall’altro, le capitali europee lavorano a un prestito di guerra per Kiev garantito dagli asset russi, con l’obiettivo di non ridare fiato alla macchina economica del Cremlino.

La frattura, resa pubblica nelle ultime ore da rivelazioni del Wall Street Journal, non è solo tecnica: dietro ci sono interessi industriali enormi, strategie energetiche divergenti e visioni incompatibili sul modo di chiudere – o congelare – la guerra.

Il piano made in Washington: fondi di Wall Street e rientro di Mosca

Secondo le indiscrezioni filtrate da documenti riservati condivisi con gli europei, la Casa Bianca ha fatto circolare una serie di appendici di una pagina ai progetti di pace in discussione. Non sono testi pubblici, ma la loro struttura è chiara: trasformare gli asset russi congelati in carburante finanziario per un gigantesco piano di ricostruzione guidato da capitali statunitensi.

Il cuore dell’idea è semplice nella logica, ambizioso nelle dimensioni: permettere a banche d’affari e fondi di private equity americani di gestire circa 200 miliardi di dollari di fondi russi congelati, usarli come leva per attirare capitali privati e creare un veicolo capace – nelle stime ottimistiche di Washington – di arrivare fino a 800 miliardi di dollari sotto gestione.

In questa visione, l’Ucraina diventerebbe il grande cantiere del capitalismo americano: infrastrutture, energia, tecnologia, miniere di terre rare. Tra i progetti simbolo citati nelle ricostruzioni giornalistiche spicca l’idea di un mega data center alimentato dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia, oggi occupata dalle forze russe e considerata uno dei punti più sensibili del fronte.

Ma la parte più controversa del pacchetto non riguarda Kiev, bensì Mosca. Il piano statunitense, così come ricostruito da fonti europee, prevede una graduale reintegrazione dell’economia russa nei circuiti globali, con forte partecipazione di imprese americane in settori chiave: terre rare, estrazione di petrolio nell’Artico, flussi energetici verso l’Europa. Un ritorno al business quasi-as-usual, ma con un set di condizioni politiche e di sicurezza ancora tutte da definire.

Alcuni funzionari europei che hanno visto le bozze hanno reagito con aperto scetticismo. C’è chi ha paragonato la visione a un “progetto turistico da Riviera in un’area di guerra” e chi ha parlato di “nuova Yalta economica”, evocando la conferenza del 1945 in cui le potenze vincitrici ridisegnarono l’Europa, questa volta però non a colpi di eserciti ma di contratti energetici e fondi di investimento.

La controstrategia europea: prestito di riparazioni per Kiev

Se Washington guarda agli asset russi come leva per rilanciare al tempo stesso Ucraina e Russia, Bruxelles li vede soprattutto come il modo per mettere in sicurezza il bilancio ucraino per i prossimi anni.

Nell’Unione europea sono infatti congelati circa 210 miliardi di euro di riserve della Banca centrale russa, custoditi in larga parte presso il depositario Euroclear a Bruxelles. La Commissione ha presentato a inizio dicembre 2025 un progetto di “reparations loan”: un prestito a lungo termine a favore dell’Ucraina, finanziato non confiscando direttamente il capitale russo (che resterebbe formalmente di proprietà di Mosca), ma utilizzando i profitti generati da questi asset immobilizzati.

L’obiettivo è raccogliere tra 90 e 105 miliardi di euro tra il 2026 e il 2027 per coprire spese militari di base, stipendi pubblici, pensioni, servizi essenziali. In pratica, garantire che lo Stato ucraino continui a funzionare nonostante il crollo del gettito fiscale e il logoramento della guerra.

La presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha definito questa impostazione la più vicina, finora, al rispetto del diritto internazionale sulla protezione degli asset sovrani, sottolineando che l’Europa non può permettersi di dare l’impressione di sequestrare beni di uno Stato estero in modo arbitrario: in gioco c’è anche la credibilità dell’euro come moneta di riserva.

Il compromesso europeo però è tutt’altro che semplice. Alcuni Paesi – in particolare Belgio e alcuni Stati del Sud – temono ricorsi infiniti e ritorsioni economiche, mentre quelli dell’Est e del Nord spingono per usare in maniera più aggressiva gli asset russi per “far pagare a Mosca la guerra”. E l’ombra di Washington, ora apertamente contraria a un utilizzo troppo vincolato di questi fondi, complica ulteriormente i negoziati.

Perché Usa e Ue litigano davvero: il nodo tempo e potere

Dietro la disputa tecnica si nascondono due domande politiche: quanto a lungo dovrà restare sotto pressione l’economia russa, e chi controllerà la grande partita della ricostruzione ucraina.

I funzionari americani coinvolti nel negoziato sostengono che la via europea – usare gli asset congelati come garanzia per un prestito limitato nel tempo – esaurirebbe troppo rapidamente il “tesoretto”, lasciando poco margine di manovra per la fase di ricostruzione vera e propria. Meglio, secondo Washington, affidare i fondi alla gestione di Wall Street, trasformandoli in capitale di rischio e moltiplicandone l’effetto tramite investimenti privati.

Per le capitali europee, invece, la priorità non è moltiplicare i rendimenti, ma tenere alta la pressione economica su Mosca e garantire che Kiev abbia subito le risorse per continuare a combattere e a pagare stipendi e munizioni. L’idea di reinserire la Russia nel mercato globale dell’energia e delle materie prime, mentre la guerra è ancora in corso o appena congelata, è vista come un regalo strategico al Cremlino.

A pesare c’è anche la memoria recente: dal 2022 l’Europa ha investito miliardi per sganciarsi dal gas russo, diversificando fornitori (GNL americano, Medio Oriente, Nord Africa) e accelerando su rinnovabili e risparmio energetico. Tornare in pochi anni a dipendere da gas e petrolio russi, magari gestiti da joint venture Usa-Russia, viene percepito da molti governi come un passo indietro storico.

Infine c’è il tema del controllo politico: un grande fondo gestito da banche e fondi americani darebbe a Washington una leva dominante sulla ricostruzione dell’Ucraina, mentre un prestito europeo ancorato alle istituzioni Ue rafforzerebbe il ruolo di Bruxelles come principale sponsor e garante del futuro del Paese.

La Russia tra recessione tecnica e rischio crisi bancaria

Il dibattito su come usare gli asset congelati si intreccia con un’altra domanda cruciale: quanto è fragile davvero l’economia russa dopo quasi quattro anni di guerra e sanzioni?

Analisi di centri studi occidentali e persino di think tank vicini al Cremlino convergono su uno scenario di crescita anemica, inflazione alta e pressione crescente sul sistema bancario. Alcune proiezioni parlano di recessione tecnica in corso e di un rischio concreto di crisi bancaria sistemica entro il 2026 se dovessero aumentare le sofferenze bancarie e diminuire la fiducia dei depositanti.

Il modello della cosiddetta “fortezza Russia” ha retto meglio del previsto nella prima fase della guerra, grazie a spesa pubblica massiccia, riconversione industriale verso il comparto militare e una sostituzione accelerata delle importazioni occidentali con fornitori alternativi, in primis Cina e Paesi asiatici. Ma i margini si stanno riducendo: stipendi e pensioni sono sotto pressione, l’inflazione erode i redditi reali e gli investimenti esteri sono ai minimi storici.

In questo quadro, molti governi europei temono che il piano americano di riattivare rapidamente gli scambi energetici e industriali con la Russia offra al Cremlino la pausa perfetta per ricostruire capacità militari ed evitare che la crisi economica eroda il consenso interno. Esattamente il contrario dell’obiettivo delle sanzioni.

Le paure di Kiev e lo spettro di un accordo al ribasso

Sullo sfondo di questo braccio di ferro economico c’è il dossier politico più esplosivo: il piano di pace promosso dalla Casa Bianca. Bozze e indiscrezioni circolate tra capitali europee e media internazionali descrivono un progetto in più punti che prevederebbe, per Kiev, dure concessioni territoriali e limiti di lungo periodo all’adesione alla NATO.

Per l’Ucraina, un pacchetto che combina concessioni territoriali, congelamento del percorso euro-atlantico e un piano economico che riporti la Russia al centro della partita energetica europea rischia di sembrare più una normalizzazione della vittoria parziale di Mosca che una pace giusta. Non a caso, sia il governo ucraino sia diversi Paesi dell’Est Europa hanno fatto trapelare un forte malcontento verso un percorso percepito come troppo sbilanciato sulle richieste russe.

Anche a Bruxelles e nelle principali capitali dell’Europa occidentale circolano timori simili: un’intesa che garantisca alla Russia la possibilità di capitalizzare le conquiste territoriali con ampi ritorni economici rischierebbe di mandare al mondo un messaggio pericoloso, e cioè che l’aggressione militare può essere, alla fine, un investimento redditizio.

Energia, dati, terre rare: perché l’Ucraina è il nuovo spartiacque

L’Ucraina non è solo un campo di battaglia: è un crocevia di energia, tecnologie e materie prime strategiche.

Sul fronte energetico, il nodo più delicato resta la centrale nucleare di Zaporizhzhia, il più grande impianto nucleare d’Europa, occupato dai russi e fermo da tempo. Rapporti internazionali ne ricordano la vulnerabilità in un contesto di guerra, ma allo stesso tempo ne sottolineano il potenziale come infrastruttura chiave della futura rete energetica ucraina. L’idea di costruire accanto un grande data center suscita interrogativi tecnici, ambientali e di sicurezza evidenti.

In parallelo, il Paese dispone di rilevanti risorse minerarie e di terre rare essenziali per la transizione digitale e verde: batterie, magneti, elettronica avanzata. È facile capire perché le proposte trapelate descrivano l’Ucraina come una futura “fabbrica strategica” al centro di catene del valore che vanno dall’Europa all’America.

La domanda politica, però, è chi controllerà queste catene. Un modello guidato da fondi americani con la Russia reintegrata come grande fornitore di energia e materie prime disegnerebbe un’architettura economica centrata su Washington. Un modello europeo, basato su istituzioni Ue, condizioni politiche stringenti e un uso più punitivo degli asset russi, sposterebbe invece il baricentro verso Bruxelles e le capitali del continente.

Cosa succede adesso

I prossimi mesi saranno decisivi. L’Unione europea deve trovare un accordo interno sul prestito di riparazioni garantito dagli asset russi, evitando veti incrociati e contenziosi legali. Ogni rinvio indebolisce Kiev, che ha bisogno di certezze di bilancio per il 2026-2027, soprattutto ora che il sostegno americano tradizionale è meno prevedibile.

Washington, dal canto suo, continuerà a spingere per un pacchetto unico che leghi pace, ricostruzione e reintegrazione economica della Russia, contando sul peso di Wall Street e sulla stanchezza di alcune opinioni pubbliche europee verso una guerra percepita come infinita.

Per l’Ucraina, la vera posta in gioco è duplice: evitare di essere schiacciata tra due progetti elaborati altrove e, allo stesso tempo, assicurarsi che la ricostruzione non diventi un affare in cui gli ucraini sono solo comparse su un set dominato da potenze straniere e grandi gruppi economici.

Una cosa, però, è già chiara: la battaglia sugli asset russi congelati è il primo grande negoziato dell’ordine post-guerra. Da come sarà chiusa dipenderanno non solo il futuro di Kiev e la tenuta delle sanzioni, ma anche il messaggio che l’Occidente manderà al mondo su come intende gestire aggressioni, riparazioni e premi – o punizioni – per chi viola le regole. 

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