Che il Parlamento italiano fosse diventato da tempo una sorta di talent show con velleità teatrali era cosa nota. Ma negli ultimi giorni, tra le mozioni, le dichiarazioni di voto e i richiami all’ordine, sembra che il vero protagonista di Montecitorio sia diventato il più antico degli intercalari italici: il celebre, inossidabile, trasversale “vaffa”. Nessun partito lo ha inserito nel proprio programma elettorale, ma ormai pare godere di una maggioranza silenziosa – anzi, sussurrata – con microfoni spenti e labiali audaci.
Vaffa, Aula e Microfoni Spenti
Ultimo in ordine di tempo, il deputato Nicola Fratoianni, beccato dalle telecamere a riservare un affettuoso “vaffa” al ministro Tajani, probabilmente per il solo fatto di esistere. Un gesto talmente spontaneo da sembrare parte del cerimoniale parlamentare, più autentico di mille comunicati stampa. Tajani ha replicato con quel savoir-faire da diplomatico di lungo corso: “Non ho sentito nulla, ma se è vero, direi che è poco educato”. Una risposta sobria, forse più pungente del vaffa stesso. In fin dei conti, è come dire: “Ti perdono, ma non vali la mia indignazione”.
Non è la prima volta che i decibel dell’Aula si trasformano in un carnevale silenzioso di invettive. Dietro ogni intervento c’è ormai il rischio che un parlamentare, credendosi fuori onda, affidi al nulla un liberatorio sfogo. Il microfono è spento, la dignità pure, ma l’effetto scenico è garantito. Gli spettatori da casa, muniti di lip-reading e sottotitoli generati dall’intuizione popolare, applaudono.
Un tempo, i “vaffa” facevano carriera: basti pensare a interi movimenti politici nati sul principio della parolaccia programmatica. Oggi invece tornano alla forma originale, al gesto istintivo. Non più vetrina ideologica, ma colpetto sotto il banco. Una regressione? Forse. Ma anche una forma di resistenza: tra le moine dei talk show e le pose da statista su Instagram, il vaffa rimane l’unica dichiarazione d’intenti davvero bipartisan.
E mentre gli italiani fuori dal palazzo discutono di inflazione, sanità e bollette, dentro l’Aula il termometro del nervosismo si misura così: a colpi di sussurri scurrili, camuffati da pruriti sul baffo o da improvvise allergie al cerone. In fondo, c’è chi propone riforme costituzionali, chi sfila coi cartelli, chi sbotta con un “vaffa”. Tutti parlano al popolo, ma pochi parlano come il popolo.
Forse è tempo di smettere di contarli come gaffe. I “vaffa” del Parlamento sono ormai una metrica politica, una nuova unità di misura della tensione istituzionale. E chissà che un giorno, nei resoconti ufficiali della Camera, non spunti tra parentesi quadre la sigla più sincera di tutte: [vaffa non registrato].