Nel momento in cui l’Europa fatica a definire una strategia industriale chiara e l’Italia soffre il peso di una burocrazia asfissiante, le imprese italiane guardano sempre più agli Stati Uniti come rifugio produttivo e commerciale. Non solo i colossi come illycaffè, ma anche medie realtà come il gruppo Sila stanno lavorando per aprire stabilimenti o acquistare strutture già esistenti in America. La prospettiva, per molti imprenditori, è sfuggire a un sistema normativo ritenuto soffocante e, al contempo, avvicinarsi al mercato più ricco del pianeta.
illycaffè, Sila e la fuga oltre Atlantico: tutte le aziende italiane che scommettono sugli Usa
L’ombra di Donald Trump, tornato protagonista della scena politica americana con toni muscolari, agita gli equilibri globali ma al tempo stesso offre rassicurazioni agli imprenditori. “L’America sarà sempre aperta per chi crea lavoro”, è il messaggio che sta passando. I dazi e le barriere doganali sono un’arma a doppio taglio, ma la stabilità delle regole fiscali, i vantaggi in alcuni Stati federali e il clima dichiaratamente “business friendly” attraggono. In questo scenario si inserisce la strategia di molte aziende italiane: aprire negli Usa conviene, anche solo per evitare complicazioni future legate alle esportazioni.
Dalla produzione alla logistica: la strategia di chi si muove adesso
Il caso illycaffè è emblematico: il brand triestino ha già un’importante presenza commerciale negli Stati Uniti, ma ora valuta strutture produttive locali per rafforzare il controllo della filiera e ridurre i costi di trasporto. Il gruppo Sila, specializzato in componentistica per l’automotive, è già in trattative per rilevare un impianto nel Midwest. Altre piccole aziende puntano ad acquisizioni mirate: non potendo costruire da zero – a causa dei tempi e dei permessi – preferiscono rilevare realtà in difficoltà e riconvertirle, magari in sinergia con partner americani.
La nuova corsa all’Ovest: investimento o necessità?
Più che un’opzione di sviluppo, quella americana diventa quasi una scelta obbligata. Chi produce in Italia si confronta ogni giorno con costi energetici più alti, ritardi nei pagamenti dalla pubblica amministrazione, incertezze legate ai bonus che cambiano con le leggi di bilancio. Il paragone con gli Stati Uniti, dove le regole fiscali restano stabili per decenni e il credito d’imposta sugli investimenti è certo e immediato, penalizza il sistema italiano. Così, anche realtà con un forte radicamento locale iniziano a considerare una seconda sede oltre oceano, da cui gestire produzione, logistica e in parte anche ricerca e sviluppo.
Il rischio desertificazione industriale e la lezione per l’Italia
La dinamica in corso potrebbe preludere a una lenta desertificazione del tessuto produttivo italiano. Se le aziende innovative, competitive e proiettate sui mercati internazionali decidono di delocalizzare il cuore della loro attività, ciò che resta rischia di essere un’ossatura debole, fatta di filiere accorciate e bassa innovazione. Il governo italiano – qualunque sia la sua composizione nei prossimi mesi – è chiamato a riflettere: le imprese non chiedono solo sussidi, ma un ambiente stabile e meno ostile alla crescita. Se la fuga in America si trasformerà in esodo strutturale, sarà già troppo tardi per rimediare.