Dazi e guerre commerciali: le aziende americane riscrivono le rotte per aggirare le barriere
- di: Cristina Volpe Rinonapoli

Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina non si allentano, ma nel frattempo le grandi aziende americane stanno affinando le strategie per evitare gli effetti più penalizzanti delle politiche protezionistiche. Non si tratta più di resistenza passiva o di lobby istituzionali, ma di vere e proprie manovre di aggiramento dei dazi, che sfruttano le pieghe normative e logistiche dei mercati globali. Al centro ci sono le triangolazioni doganali e le delocalizzazioni intelligenti, che permettono alle imprese di mantenere le proprie catene di fornitura attive, senza subire l’impatto economico dei dazi introdotti durante le guerre commerciali, in particolare tra Washington e Pechino.
Dazi e guerre commerciali: le aziende americane riscrivono le rotte per aggirare le barriere
L’impatto dei dazi non è scomparso, ma si è ridistribuito. Secondo le ultime analisi diffuse dai centri studi internazionali, a partire dal 2018 – anno in cui la presidenza Trump ha lanciato il primo pacchetto di dazi contro le importazioni cinesi – l’interscambio diretto tra Stati Uniti e Cina si è contratto in modo significativo. Ma non è calato l’arrivo di prodotti di origine cinese sul suolo americano: è solo cambiato il tragitto. Le aziende hanno spostato una parte della produzione in paesi terzi, come Vietnam, Thailandia, India e Messico, dove la trasformazione – anche minima – della merce consente di etichettare il prodotto come “non cinese” e dunque di superare i filtri doganali imposti da Washington. Il risultato è che il valore degli scambi con questi paesi è cresciuto a doppia cifra, con un incremento fino al 50% in alcuni settori manifatturieri.
La logica delle origini preferenziali e le falle normative
Il punto centrale di questo meccanismo è la normativa sull’origine preferenziale. In base alle regole del commercio internazionale, un prodotto può acquisire la nazionalità di un paese terzo se subisce in quel paese una lavorazione “sostanziale”. Il problema è che la soglia di questa trasformazione è spesso bassa e ambigua. In pratica, basta una fase minima – come l’assemblaggio finale o l’imballaggio – per cambiare la bandiera commerciale del prodotto. Le aziende americane, grazie a team legali e commerciali ben strutturati, utilizzano questa possibilità in modo sistematico, aggirando l’intento originario delle politiche doganali.
Tecnologia e microchip: il caso emblematico
Il settore più colpito – e più reattivo – è quello dell’hi-tech. I microchip, in particolare, sono diventati il simbolo della rivalità tra Washington e Pechino, con la Casa Bianca che ha introdotto restrizioni pesantissime non solo sull’importazione ma anche sull’esportazione di tecnologie sensibili. Eppure, i colossi Usa del settore stanno continuando a operare sul mercato asiatico sfruttando joint venture e società satellite con base in paesi meno esposti ai controlli. Il know-how resta americano, ma la filiera è mascherata dietro a una serie di passaggi che rendono il flusso difficile da tracciare. In questo scenario, le autorità doganali si trovano in difficoltà: i controlli esistono, ma spesso inseguono filiere già modificate.
Il paradosso delle sanzioni inefficaci
La politica dei dazi si fonda su una logica di pressione economica: colpire il produttore per modificarne il comportamento. Tuttavia, l’elasticità delle catene del valore globali ha reso questa leva molto meno efficace. Le imprese più strutturate hanno imparato ad assorbire l’impatto con strategie di adattamento rapide, mentre il prezzo finale spesso ricade sul consumatore. Il rischio, segnalato da diversi analisti, è che le misure protezionistiche finiscano per alimentare l’inefficienza e il caos regolatorio, senza portare a reali benefici geopolitici o economici. In alcuni casi, il risultato è addirittura opposto: le aziende rilocalizzano fuori dagli Stati Uniti per evitare i costi interni, con effetti negativi sull’occupazione domestica.
Uno scenario destinato a durare
Nonostante l’apparente tregua tra Usa e Cina, il clima resta incerto. Le elezioni americane del 2024 potrebbero riaccendere le fiamme del protezionismo, soprattutto se il tema del lavoro manifatturiero tornerà al centro del dibattito pubblico. In questo quadro, le aziende continuano a muoversi in modo autonomo, costruendo reti commerciali che anticipano i cambiamenti normativi. La guerra dei dazi non è finita: ha solo cambiato forma. E il campo di battaglia si è spostato dalle istituzioni ai piani alti delle strategie aziendali.