Orientamento sessuale e discriminazione, Istat: il 26% degli omo/bisessuali penalizzato sul lavoro

- di: Barbara Leone
 
Oggi è la Giornata è internazionale contro l’omo-lesbo-bi-transfobia. La parola è lunga, di quelle che si fa quasi fatica a pronunciare. Il senso però è molto semplice: rispetto e uguaglianza, per dirla col nostro Presidente Mattarella. Qualcosa che dovrebbe essere scontato per tutti. E invece ancora oggi, anno 2022, non è scontato affatto. Basta leggere gli ultimi dati di una ricerca Istat per capirlo. Proprio in occasione di questa Giornata, infatti, l’ente di ricerca ha reso noti alcuni  risultati delle indagini finora condotte nell’ambito del progetto, tuttora in corso e svolto in collaborazione con Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), sul tema delle “Discriminazioni lavorative nei confronti  delle persone LGBT+ e le diversity policies attuate presso le imprese”. Il quadro che ne vien fuori non è esattamente degno di un Paese che si proclama civile. Stando all’indagine, che ha coinvolto oltre 21mila individui in unione civile o già in unione  residenti in Italia, il 26% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali afferma che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della  vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (retribuzione, avanzamenti di carriera,  riconoscimento delle capacità professionali). Il 12,6% afferma addirittura di non essersi presentato a un colloquio di lavoro o non aver fatto domanda perché  pensava che l’ambiente di lavoro sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale. Circa una persona su tre riporta episodi di outing, ovvero di disvelamento non consensuale a terzi  dell’orientamento sessuale, mentre il 40,3% ha evitato di parlare della sua vita privata per tenere nascosto il  proprio orientamento sessuale. 

Particolarmente diffuso è il fenomeno delle micro-aggressioni nell’attuale/ultimo lavoro legate all’orientamento sessuale: infatti, il 61,8% riporta di avere subito almeno un episodio di tale tipo da parte di persone dell’ambiente lavorativo, nell’attuale o ultima occupazione svolta. Le esperienze più frequenti riguardano l’uso  di un linguaggio offensivo o dispregiativo, scherno, domande sulla vita sessuale, avance sessuali non gradite. Ben il 46,9% degli intervistati, poi, ha  subito almeno un evento discriminatorio a scuola/università: un fenomeno, questo, molto diffuso tra i giovani (61,6% dei 18-34enni), a conferma della delicata fase di formazione  che precede l’inserimento nel mondo del lavoro e i possibili effetti che questa può avere sui successivi  percorsi di studio e lavoro.  Per quanto riguarda la discriminazione in fase di accesso al lavoro, una persona su tre dichiara di aver vissuto tale esperienza; invece, con riferimento allo svolgimento del proprio lavoro, il 34,5% dei dipendenti o ex dipendenti dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione.  Infine, il 20,8% degli occupati o ex-occupati riporta almeno uno degli episodi di clima ostile, incluse aggressioni in ambito lavorativo che vengono indicate dall’1,1% dei rispondenti. Coloro che hanno subito discriminazioni o episodi di clima ostile in ambito lavorativo ne parlano generalmente in maniera informale con altre persone, mentre è meno diffuso il reporting di tali eventi a organi e figure preposte. Circa sei dei dipendenti o ex-dipendenti su 10 hanno parlato dell’ultimo evento di discriminazione accaduto  con persone dell’ambiente lavorativo, più frequentemente con colleghi di pari grado (il 42,2%) e con datori di  lavoro e superiori (il 24,4%), ma è soprattutto con familiari (60,8%) e amici (53,7%) che ci si confronta.  Il 10,5% ne ha parlato con le organizzazioni sindacali, il 6% con un avvocato/servizio di assistenza legale e  l’1,4% con associazioni LGBT+. La quota di chi si è rivolto ad altri organi è residuale (0,7% al comitato di pari  opportunità o consigliere di fiducia, 0,3% alla consigliera di parità, 0,2% alle forze dell’ordine). Nel complesso, il 17,4% di chi ha subito discriminazione nell’attuale/ultimo lavoro dipendente ha intrapreso  una qualche azione (legale, di conciliazione sindacale, ne ha parlato con i responsabili, ha chiesto che  venissero presi provvedimenti nei confronti dei responsabili, ha cambiato lavoro/ufficio/mansioni o altro tipo di  azione). C’è poi un altro dato che dovrebbe far riflettere, perché indica il sentimento di paura del pregiudizio che vivono le persone omo/bisessuali: ben il 68,2% degli intervistati, infatti, afferma di aver evitato di tenersi per mano in pubblico con un partner dello  stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato.

Tale evidenza mostra la netta percezione  di vivere in un contesto sfavorevole; per lo stesso motivo il 52,7% ha evitato di esprimere il proprio  orientamento sessuale. Relativamente agli ultimi tre anni ed escludendo episodi avvenuti in ambito lavorativo, il 3,1% delle persone in  unione civile o già in unione che vivono abitualmente in Italia e si sono definite omosessuali o bisessuali, ha  affermato di aver subito aggressioni a causa dell’orientamento sessuale; per lo stesso motivo il 3,9% ha  ricevuto minacce. Le offese legate all’orientamento sessuale ricevute via web sono invece segnalate dal 13%  degli intervistati.  Ovviamente questi dati non possono essere considerati rappresentativi dell’intera popolazione LGBT+, ma di una  piccola parte che ha voluto unirsi civilmente e che si caratterizza per un’elevata visibilità rispetto al proprio  orientamento sessuale. Ma in tutto questo come si comportano i datori di lavoro? Qualcosa, forse, sta cambiando. Anche se siamo ancora molto lontani da quel concetto di uguaglianza e rispetto invocato oggi da Mattarella. Nel 2019, rileva l’Istat, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti dell’Industria e dei Servizi ha adottato almeno una misura, non obbligatoria per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBT+. La quota sale al 14,6% tra le imprese con almeno 500 dipendenti. Le misure più diffuse sono quelle destinate ai lavoratori transgender, in particolare la presenza di servizi igienici, spogliatoi, ecc. che consentano un utilizzo coerente con la propria identità di genere (3,3% delle imprese). Ancora poco diffusi gli eventi formativi sui temi legati alle  diversità LGBT+ rivolti al top management (1,3%) e ai lavoratori (1,2%) così come permessi, benefit e altre  misure specifiche per i lavoratori LGBT+, adottati in maniera molto residuale. Per tutte le misure la diffusione  è maggiore in imprese di più grandi dimensioni. Al di là delle misure intraprese e delle iniziative adottate, gli strumenti di DM per le diversità LGBT+ sono  ancora poco utilizzati dalle imprese: il 15,4% ha formalizzato in uno o più documenti interni l’adesione ai  principi di non discriminazione e inclusione dei lavoratori LGBT+, con una percentuale che arriva al 34,1% per  le imprese con 500 dipendenti e più. Nel 2,9% dei casi nelle imprese è presente un’unità organizzativa che si  occupa anche delle diversità, incluse le diversità LGBT+ e solo l’1,9% delle imprese ha previsto una figura  professionale che si occupa delle diversità, incluse le diversità LGBT+ (rispettivamente 13,3% e 10,6% tra le  imprese più grandi). Inoltre, il motivo maggiormente indicato dalle imprese a motivazione dell’adozione di misure e/o strumenti per  le diversità LGBT+ non obbligatori per legge è quello di prevenire atti discriminatori all’interno dell’impresa  (segnalato da circa metà delle imprese), seguito dalla volontà di favorire il benessere, la soddisfazione e la  motivazione dei lavoratori.  Le imprese che non hanno mai adottato misure o strumenti per le diversità LGBT+, in quasi otto casi su 10  motivano tale scelta sulla base del fatto che “non ne è emersa la necessità”; seguono motivazioni del tipo: “le  misure di legge già approvate sono sufficienti”, “l’ambiente di lavoro è già inclusivo”, “l’inclusione LGBT+ non  richiede misure ulteriori rispetto a quelle destinate a tutti i lavoratori”. Solo il 2,9% pensa di implementare, nei  prossimi tre anni, misure o strumenti di DM per le diversità LGBT+. Quel che è certo, è che occorre intervenire innanzitutto a livello culturale, come auspicano gli stessi protagonisti dell’indagine Istat. La maggior parte, infatti, ritiene  che per favorire l’inclusione delle persone  LGBT+ nel mondo del lavoro in Italia siano urgenti attività di formazione, sensibilizzazione o campagne sulle  diversità LGBT+ in ambiti lavorativi da parte delle istituzioni pubbliche (71,7%). Nella graduatoria delle azioni auspicabili seguono interventi legislativi (52,6%) e azioni di indirizzo da parte  dell’Unione europea o altri organismi sovranazionali (44,6%) e, con un notevole distacco, iniziative e interventi  degli organismi di parità e tutela preposti (26,2%) e l’impegno sindacale (es. contrattazione, formazione delle  rappresentanze sindacali, eventi e iniziative culturali) (22,2%). Meno dell’1% afferma che non è necessaria  alcuna azione.
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