La vittoria di Trump, le ragioni economiche del successo

- di: Paolo Falconio - Ex Membro della Faculty della Luiss Business School, Membro del Consejo Rector de Honor e conferenziere de la Sociedad de Estudios Internacionales
 

Non che si sentisse la necessità di una nuova analisi sulla vittoria di Trump e le successive vittorie dei repubblicani al congresso (Camera e Senato), ma con una Corte Costituzionale la cui maggioranza è espressione della sua vecchia amministrazione, Trump ha un poker d’assi che gli consentirà di incidere profondamente nelle politiche degli USA, fermo restando che su alcuni indirizzi strutturali dovrà confrontarsi con quello che lui definisce il “deep state”.

La vittoria di Trump, le ragioni economiche del successo

Sono molte le ragioni di questa rivoluzione repubblicana, ma prima di affrontare le cause economiche è ovvio che il voto ha anche altre motivazioni, come ad esempio un’ideologia imposta da una minoranza liberal-ultra liberista (da non confondere con la nobile tradizione liberale) come la Woke (da "awakening", che vuol dire "risveglio") e i suoi derivati quali la cancel culture, come se la storia potesse essere azzerata nel tentativo demenziale di creare l’uomo nuovo nel segno della globalizzazione. Situazione aggravata dalle rivolte studentesche dove giovani che non distinguono un persiano da un arabo o confondono il Nilo con il Giordano hanno tentato di occupare gli atenei con la kefiah addosso. Il tutto nel fallimento della globalizzazione stessa, che non va confusa con l’internazionalizzazione che è un’altra cosa, tanto che la parola stessa ha in re ipsa il concetto di nazione. Tralasciando le molte altre considerazioni sul voto, è bene sottolineare che a parere dello scrivente il fattore economico è il fattore determinante di questa schiacciante vittoria.

A testimoniarlo vi era, stando ai sondaggi, lo scontento di moltissimi americani che imputavano all’amministrazione Biden una mala gestione della crisi economica. Sarebbe bastato leggere l’Economist, che dal 2009, assieme a YouGov, ogni settimana chiedeva a 1.500 americani il loro “mood” (la loro percezione) sull’andamento dell’economia. Il dato è stato poi confermato da un sondaggio della Gallup per il quale due americani su tre giudicavano negativamente l’operato della Casa Bianca. Le fonti dovrebbero dissipare ogni dubbio su simpatie o antipatie personali. Il punto è che molti indicatori che riguardavano la vita quotidiana delle persone non erano affatto positivi. La parola chiave o il binomio su cui si è giocata in buona parte la presidenza è “Inflazione/potere d’acquisto”. Alcuni dati aiuteranno a capire: il reddito personale è risultato inferiore del 15% se paragonato a marzo 2021 (che invero era sostenuto da tutta una serie di misure volute dallo stesso Biden), l’aumento dei tassi per contrastare l’inflazione ha reso più onerosi mutui e prestiti con un mercato immobiliare che lascia fuori una fetta di popolazione (ricordiamoci che la casa è un pilastro del sogno americano).

In questo quadro la reazione dei Dem è stata accusare di odio ideologico il malcontento perché il PIL registrava un più 7%, che tuttavia rimaneva estraneo al cittadino medio americano, il quale dai sondaggi non solo accusava il governo di aver gestito male la crisi, ma si dichiarava convinto che le cose sarebbero peggiorate. L’altra parola fondamentale è “lavoro”. La promessa di inasprire le politiche protezionistiche, che andrebbero ad affiancare il sistema degli incentivi dell’amministrazione Biden, attraverso l’applicazione di dazi (anche sui prodotti europei), è di fatto una promessa di maggiori profitti, ma anche di posti di lavoro, perché l’obiettivo finale è quello di riportare le imprese americane e non solo in America. Il fenomeno è così sentito e importante che è stato coniato un neologismo, “reshore”. Per capire quanto abbia inciso la promessa di reindustrializzazione dovete immaginare che esiste tutta un’area che comprende vari stati che ha percentuali di disoccupazione vicine al 50% e il cui panorama è composto dalle strutture arrugginite delle vecchie fabbriche (ad esempio il comparto auto), tanto che quest’area viene identificata con un nome che è tutto un programma “Rust Belt” ossia cinghia arrugginita. Se a questo aggiungete che le popolazioni locali erano trattate con un certo disprezzo intellettuale (erano i cafoni) dalle élite dinastiche democratiche, perché non capivano il grande miraggio della globalizzazione (che per inciso ha fatto della Cina la fabbrica del mondo, salvo divenire il problema principale degli USA, anche dal punto di vista commerciale) e che invece il Vice Presidente JD Vance ha riabilitato, ridando dignità a queste persone anche attraverso un libro di grande successo, “Elegia Americana (Hillbilly Elegy )”, è facile comprendere perché Trump è stato percepito come l’uomo del popolo, mentre i democratici perdevano la working class americana e venivano identificati come i difensori delle grandi concentrazioni di ricchezza.

Persino il tema della sicurezza, dovuto all’immigrazione irregolare, si incentra sulla tutela del lavoro. La maggioranza dei “chicanos” (gli immigrati dal sud America) ha votato Trump perché avvertono l’immigrazione irregolare, dai loro stessi Paesi di provenienza, come una minaccia, “una concorrenza sleale” che andrebbe ad incidere sulle loro condizioni di lavoro. Queste a grandi linee le ragioni economiche alla base della vittoria di Trump, che non ha avuto solo la maggioranza dei grandi elettori, ma anche la maggioranza popolare con un aumento dei consensi anche tra le minoranze etniche. Un’ultima considerazione la devo fare come italiano. L’imposizione di dazi sui prodotti italiani non è auspicabile, perché oltre il cinquanta per cento del nostro surplus commerciale deriva dalle esportazioni verso il mercato americano e indubbiamente queste ne risentirebbero (con buona pace di alcuni sondaggi che spesso riguardano il lusso o prodotti di nicchia). Se a questo possibile scenario uniamo la crisi industriale tedesca, che trascina con sé buona parte del nord-est che produceva la componentistica a loro necessaria, la preoccupazione per un’economia già malata è un atto di dovere. A prescindere da chi sia al governo, abbiamo la necessità di mettere in atto quelle che una volta erano chiamate politiche industriali e che i vincoli di bilancio ci vietano. Il che vuol dire una battaglia feroce in Europa i cui indicatori economici, ad esclusione del far east (Polonia e così via) e dei baltici, sono tutti negativi.

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