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Quando il desiderio di visibilità si trasforma in tragedia: la morte di una quindicenne e il selfie estremo come sintomo sociale

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Quando il desiderio di visibilità si trasforma in tragedia: la morte di una quindicenne e il selfie estremo come sintomo sociale

La morte della ragazza di 15 anni nel Bellunese, schiacciata da un masso mentre tentava di scattarsi un selfie con le amiche su un costone roccioso, è molto più di una tragica fatalità: è il riflesso drammatico di un processo sociale che investe l’adolescenza contemporanea. Il corpo, sempre più spesso, si trasforma in superficie rappresentabile, in immagine da produrre e condividere per ottenere un riconoscimento simbolico all’interno della propria rete sociale. In questo quadro, il selfie non è solo un atto narcisistico, ma una pratica di costruzione identitaria, una performance sociale che chiede di essere vista, approvata, commentata. Scattare una foto in un luogo spettacolare, magari pericoloso, diventa parte di un rito di iniziazione collettiva verso l’accettazione e la popolarità, sostituendo la narrazione privata con una versione spettacolarizzata del sé.

Quando il desiderio di visibilità si trasforma in tragedia: la morte di una quindicenne e il selfie estremo come sintomo sociale

Il gesto che ha condotto alla morte della ragazza non può essere letto semplicemente come imprudenza individuale. È il frutto di una cultura diffusa in cui il rischio è elevato a valore. Le piattaforme digitali premiano le immagini estreme, la sfida ai limiti, l’originalità anche a scapito della sicurezza. In questo contesto, l’adolescente costruisce la propria immagine sociale sulla base della visibilità ottenuta, e il pericolo si trasforma in elemento di attrazione. L’arrampicata sul costone non era probabilmente una trasgressione, ma una forma di adesione implicita a un copione mediatico che esige immagini mozzafiato. In questa dinamica, il pericolo non è percepito come tale, ma come condizione quasi necessaria per emergere nel flusso anonimo della rete.

La socialità dei dispositivi e la solitudine strutturale
L’esperienza condivisa del selfie, lungi dal configurarsi come un atto solitario, è in realtà un momento di co-creazione collettiva. Le ragazze si trovavano insieme, in un contesto ludico, spinte dalla volontà di condividere un ricordo. Ma dietro l’apparente coralità del gesto si cela una forma di solitudine strutturale, tipica delle generazioni digitali, in cui l’altro è spesso filtro, spettatore, o strumento per la propria narrazione. Il momento tragico che ha interrotto quella giornata spensierata mostra quanto fragile sia il confine tra il “gioco” dell’identità digitale e il ritorno brutale alla realtà materiale, al corpo, al pericolo fisico. La morte diventa così anche un paradosso: nella ricerca di visibilità, si è prodotta un’assenza definitiva.

Il lutto come trauma collettivo e specchio sociale
Il cordoglio della comunità, le parole del sindaco, la reazione della scuola, tutto parla di un dolore condiviso che va oltre il caso singolo. La morte della ragazza attiva un trauma collettivo perché colpisce un nodo simbolico centrale: l’adolescenza come tempo del possibile, dell’attesa, della crescita. Interrompere bruscamente questa traiettoria solleva interrogativi profondi sulla società che gli adulti hanno costruito attorno ai più giovani. L’episodio diventa allora una lente per riflettere su modelli educativi, sul ruolo delle famiglie, sulla capacità della scuola di fornire strumenti critici per leggere il mondo digitale e le sue insidie. Il lutto, in questo caso, è anche un’occasione per interrogarci su cosa significhi davvero accompagnare i ragazzi nel loro processo di soggettivazione.

Paesaggio, spettacolarizzazione e gestione del rischio
Infine, l’ambiente in cui si è consumata la tragedia richiama un altro elemento strutturale: la crescente spettacolarizzazione del paesaggio naturale. Le zone impervie, prima considerate pericolose o poco accessibili, diventano mete frequentate proprio per la loro estetica fotogenica. Il paesaggio non è più vissuto come natura da rispettare, ma come sfondo per la rappresentazione. In questo slittamento di significato, la gestione del rischio diventa un problema pubblico: serve ridefinire il rapporto tra territorio, comunicazione e sicurezza. L’incidente del Bellunese non è solo il frutto di una leggerezza individuale, ma anche l’esito di un processo collettivo in cui la cultura della visibilità ha colonizzato ogni spazio, compresi quelli in cui il pericolo è reale, fisico, e irreversibile.

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