Una nuova ondata di sangue e devastazione ha colpito la Striscia di Gaza nella notte, con un raid israeliano che ha causato decine di morti e feriti, tra cui anche diversi giornalisti. I bombardamenti hanno colpito il centro della città di Deir el-Balah e l’area di Khan Younis, nei pressi del complesso ospedaliero Nasser, dove si trovava una tenda che ospitava cronisti locali e internazionali. Le immagini diffuse dai media arabi mostrano una scena di caos e disperazione: tra le macerie, resti di videocamere, microfoni e giubbotti con la scritta "Press" ancora visibili.
Gaza sotto le bombe: tra le vittime anche giornalisti, esplode la crisi umanitaria
Secondo le fonti sanitarie palestinesi, i missili sono arrivati a seguito del lancio di almeno dieci razzi da parte di Hamas nella serata di ieri. Israele ha rivendicato l’attacco come una “risposta mirata” contro infrastrutture militari utilizzate per il coordinamento degli attacchi contro il territorio israeliano. Il bilancio ufficiale non è ancora stato confermato, ma testimoni e soccorritori parlano di almeno 42 morti e oltre 80 feriti, molti dei quali in condizioni gravissime. Alcune delle vittime stavano trasmettendo in diretta da una zona che, fino a poche ore prima, era considerata sicura.
L’uccisione di giornalisti in aree di conflitto accende nuovamente i riflettori su una delle questioni più delicate di questa guerra lunga e complessa: la protezione degli operatori dell’informazione.
Le organizzazioni internazionali hanno reagito con durezza. Reporter Senza Frontiere ha definito l’attacco “inaccettabile e contrario al diritto internazionale”, mentre il Comitato per la Protezione dei Giornalisti ha chiesto l’apertura immediata di un’indagine indipendente. Anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha espresso “profonda preoccupazione”, sottolineando come la libertà di stampa non possa essere sacrificata nemmeno nei contesti più estremi.
Il contesto in cui è avvenuto il raid è ormai segnato da un’escalation che sembra non conoscere tregua. La città di Gaza è sempre più isolata, con continui blackout elettrici e una situazione sanitaria al collasso. Gli ospedali operano senza medicinali e con scorte d’acqua e cibo ormai esaurite. Le immagini dei feriti trasportati a braccia, tra cumuli di detriti e lamenti, evocano scenari da catastrofe umanitaria. Il Nasser Medical Complex, uno dei pochi centri ancora funzionanti, è sovraffollato e privo di risorse: il personale medico parla di “condizioni insostenibili”.
Nel frattempo, la diplomazia internazionale si muove su più fronti. Oggi al Cairo si terrà un vertice straordinario che vedrà riuniti il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il presidente francese Emmanuel Macron e il re di Giordania Abdallah II. L’obiettivo dell’incontro è discutere una possibile de-escalation militare e trovare un canale umanitario per l’evacuazione dei civili feriti, soprattutto bambini e donne. La presenza congiunta di tre leader con interessi strategici diversi testimonia l’urgenza e la complessità della situazione.
L’incontro potrebbe aprire nuovi scenari anche sul piano politico. Macron ha ribadito che “la protezione dei civili deve essere prioritaria in ogni operazione militare”, mentre Abdallah ha sottolineato che “la comunità internazionale non può restare a guardare”. L’Egitto, che ha sempre giocato un ruolo chiave nella mediazione tra Hamas e Israele, sta cercando di mantenere aperti i canali con entrambe le parti, ma il margine di manovra appare ridotto.
A rendere tutto più instabile è la crescente pressione interna a Israele, dove l’opinione pubblica si mostra divisa. Da un lato la richiesta di fermezza contro Hamas, dall’altro le voci critiche che temono una spirale di violenza senza fine. Il governo Netanyahu, impegnato anche sul fronte delle tensioni con gli Stati Uniti riguardo i dazi, si trova stretto tra le necessità di sicurezza e le pressioni internazionali.
L’attacco ai giornalisti rappresenta dunque un punto di svolta simbolico: colpire chi documenta la guerra significa mettere in discussione la possibilità stessa di raccontarla. In un conflitto sempre più opaco, dove la verità è spesso oggetto di propaganda, la morte di cronisti e operatori dei media getta un’ombra lunga e inquietante. La comunità internazionale è chiamata ora a un gesto concreto, perché il silenzio può diventare complice.