Ultimo taglio dei tassi del 2025, Fed divisa e successore di Powell scelto dalla Casa Bianca trumpiana: il 2026 si annuncia come l’anno più delicato per l’indipendenza della banca centrale americana.
Foto: (Jerome Powell, presidente Fed).
Un altro taglio da 25 punti, ma con tono da “falco”
La Federal Reserve è pronta a chiudere il 2025 con un nuovo taglio dei tassi di interesse:
i mercati scontano ormai una riduzione di 25 punti base, il terzo intervento consecutivo dell’anno
sul costo del denaro. Le aspettative prevalenti puntano a un corridoio dei federal funds
intorno al 3,50%–3,75%, livello che segnerebbe il minimo del ciclo dopo la stretta anti-inflazione.
Ma non si tratta di un taglio “rilassato”. Gli analisti parlano sempre più spesso di
“hawkish cut”: Powell dovrebbe abbassare i tassi, ma al tempo stesso
rendere chiaro che il percorso successivo sarà molto più prudente, congelando per ora lo scenario
di ulteriori allentamenti rapidi nel 2026.
Alla vigilia della riunione, i futures sui Fed funds prezzano la mossa come quasi certa,
ma la comunicazione del presidente della Fed è attesa quanto la decisione in sé:
dovrà tenere insieme un board diviso, rassicurare i mercati e, sullo sfondo,
non dare l’impressione di cedere alla pressione politica della Casa Bianca.
Fed spaccata tra falchi e colombe, con pochi dati sul tavolo
Il taglio di dicembre arriva in un contesto inedito: la banca centrale è
profondamente divisa al suo interno e la
recente paralisi dei dati economici dovuta al lungo shutdown federale
ha reso più complicato qualsiasi giudizio sull’economia reale.
Da una parte i “falchi” insistono sul fatto che l’inflazione, pur in calo,
resta ancora sopra il target del 2% e che un allentamento troppo veloce
rischierebbe di riaccendere le pressioni sui prezzi e di minare la credibilità conquistata a fatica
negli ultimi anni. Dall’altra, le “colombe” sottolineano il progressivo
raffreddamento del mercato del lavoro, con una crescita occupazionale più debole,
segnali di rallentamento nei consumi e un clima di fiducia meno brillante nelle imprese.
A complicare il quadro c’è la scarsa visibilità statistica: il lungo blocco dei servizi federali
ha rallentato o rinviato la pubblicazione di alcuni indicatori chiave su occupazione, inflazione,
vendite al dettaglio e PIL, costringendo la Fed a decidere con un quadro informativo parziale.
In un contesto così, ogni decimale su inflazione o disoccupazione pesa il doppio.
La lunga ombra di Trump sulla banca centrale
Sullo sfondo della riunione di dicembre c’è la figura ingombrante di
Donald Trump, tornato alla Casa Bianca e da mesi in campagna aperta
contro la linea di Powell. Post sui social, interviste, frecciate pubbliche:
il presidente non ha nascosto la sua frustrazione per una Fed giudicata troppo lenta nel
tagliare i tassi e nel sostenere la crescita americana.
Trump ha fatto pressione sui membri del board, ha attribuito alla Fed parte della responsabilità
per la volatilità dei mercati e ha chiesto in più occasioni un allentamento aggressivo
per “sfruttare al massimo” il momento economico, arrivando a evocare la possibilità di
scegliere un nuovo presidente della banca centrale pienamente allineato alla sua visione
di tassi più bassi e crescita a ogni costo.
È esattamente questo intreccio tra politica e banca centrale
a tenere in allerta gli osservatori internazionali: storicamente, la credibilità del dollaro
e la stabilità del sistema finanziario globale hanno poggiato sulla capacità della Fed
di prendere decisioni indipendenti dal ciclo elettorale. Rompere questo equilibrio vorrebbe dire
cambiare le regole del gioco non solo per Washington, ma per l’intera finanza mondiale.
Il conto alla rovescia per il dopo Powell
Il mandato di Jerome Powell si avvia alla conclusione nella primavera del 2026.
Trump ha già annunciato che renderà noto il nome del successore all’inizio del 2026,
trasformando i primi mesi del nuovo anno in un countdown ad alta tensione per i mercati.
In queste settimane la Casa Bianca sta sondando nomi e reazioni: al centro dei rumor
c’è soprattutto Kevin Hassett, economista conservatore,
già presidente del Council of Economic Advisers nel primo mandato Trump e oggi
tra i consiglieri economici più ascoltati dal presidente.
Accanto a lui, sui taccuini di Washington, compaiono anche altri profili
più o meno “trumpiani”, ma è il suo a catalizzare le attenzioni di investitori e analisti.
Nel frattempo, il ruolo di Powell resta scomodo: deve
gestire l’ultima fase del mandato senza trasformarsi in un “lame duck”,
cioè in un presidente percepito come già in uscita e quindi meno influente,
mentre al tempo stesso cerca di costruire un consenso interno sulle prossime mosse
per non presentare una banca centrale spaccata proprio nel momento in cui
la politica la osserva più da vicino.
Chi è Kevin Hassett, il favorito di Trump
Kevin Hassett è un volto noto del mondo conservatore americano: economista di formazione,
legato a think tank di area repubblicana, è stato consulente di lungo corso per il partito
e uno dei principali architetti dell’agenda pro-business del trumpismo.
Già in passato si è espresso a favore di una politica monetaria più accomodante
e di un ruolo attivo della banca centrale nel sostenere crescita e occupazione.
Nelle ultime ore, intervenendo a un importante vertice con top manager e investitori,
Hassett ha ribadito che secondo lui la Fed ha “ampio spazio per tagliare i tassi”,
anche oltre il quarto di punto ormai atteso dai mercati, pur precisando che il presidente della banca centrale
deve basarsi sui dati e non sugli umori politici. Ha definito il suo rapporto con Powell “solido”,
ma ha anche criticato alcune scelte della Fed degli ultimi anni, giudicate troppo caute.
Alle domande su un suo possibile arrivo al vertice di Washington, Hassett ha liquidato le voci
con una formula che è sembrata più una conferma che una smentita:
«Andrò dove il presidente riterrà sia più utile».
Una frase che non placa i timori di chi teme un Fed chair troppo vicino alla Casa Bianca,
ma che viene letta dai sostenitori come la promessa di una gestione attenta alla crescita e ai mercati.
Indipendenza della Fed: perché il 2026 è un test storico
Da decenni l’indipendenza della Federal Reserve è considerata una sorta di pilastro costituzionale
non scritto dell’economia americana. La logica è chiara: tenere la politica monetaria al riparo
dalle esigenze di breve periodo della politica evita di usare i tassi come strumento elettorale,
difende il potere d’acquisto del dollaro e riduce il rischio di crisi di fiducia sui mercati.
Il dibattito di queste settimane ruota proprio qui:
un presidente apertamente critico verso la Fed, che chiede da mesi tagli più aggressivi
e al tempo stesso si prepara a scegliere il nuovo capo della banca centrale,
può davvero garantire che l’istituzione resti indipendente?
O la nomina, chiunque sia il prescelto, finirà per essere letta come il tentativo di avere un Fed chair “leale”
alla Casa Bianca?
Gli esperti ricordano che il presidente della Fed è solo uno dei voti nel Federal Open Market Committee,
ma è indiscutibilmente la voce che definisce la linea, detta i tempi della comunicazione
e gestisce il rapporto con mercati e politica. È per questo che la scelta del successore di Powell
viene descritta come un “test di stress istituzionale” per gli Stati Uniti.
Mercati tra speranza di tagli e paura di una Fed politicizzata
L’appuntamento di dicembre con la Fed arriva su listini nervosi ma ancora fiduciosi in un
atterraggio morbido dell’economia americana. Le Borse europee si muovono in ordine sparso,
con indici che alternano lievi rialzi e correzioni, mentre Wall Street oscilla in attesa di conoscere
non solo la decisione sui tassi ma soprattutto il tono della conferenza stampa di Powell.
Sul fronte obbligazionario, i rendimenti dei Treasury hanno già incorporato
una parte significativa del ciclo di tagli, ma il vero ago della bilancia sarà la traiettoria del 2026:
se i mercati percepiranno che la scelta del nuovo presidente spingerà per tassi eccessivamente bassi
a dispetto dell’inflazione, il rischio è un aumento del premio per il rischio sui titoli americani
e una maggiore volatilità sul dollaro.
Gli investitori, per ora, sembrano credere che anche un Fed chair più vicino alla Casa Bianca
non potrà stravolgere completamente il funzionamento dell’istituzione, ma osservano con attenzione
ogni segnale proveniente da Washington. Una Fed che resta prevedibile e “noiosa”
è esattamente ciò che molti gestori continuano a desiderare; una Fed percepita come
braccio operativo della politica sarebbe invece un cambio di paradigma.
Powell tra continuità e commiato
Nelle prossime ore Powell si giocherà gran parte del proprio commiato politico.
Dovrà spiegare perché un nuovo taglio dei tassi è compatibile con l’obiettivo di
riportare l’inflazione verso il 2%, rassicurare chi teme un’economia in rallentamento
e, allo stesso tempo, rivendicare la capacità della Fed di decidere in autonomia.
Il 2026, con la nomina del suo successore, dirà se questa autonomia è ancora un caposaldo
del sistema americano o se stiamo entrando in una stagione in cui le banche centrali
diventano terreno di scontro politico quotidiano. Per ora, il messaggio che i mercati
si aspettano da Powell è semplice: tassi un po’ più bassi, sì; ma nessuno sconto sull’indipendenza
della banca centrale, nemmeno sotto il fuoco incrociato della politica.
In altre parole, un taglio dei tassi non potrà essere anche un taglio all’autonomia della Fed.
È questa la vera linea rossa che il 2026 metterà alla prova.