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Navi Usa a 50 km dal Venezuela: i Caraibi sull’orlo

- di: Vittorio Massi
 
Navi Usa a 50 km dal Venezuela: i Caraibi sull’orlo

Due unità da guerra statunitensi, il cacciatorpediniere USS Stockdale e l’incrociatore USS Gettysburg, stanno manovrando a circa 50 chilometri dalla costa venezuelana, di fronte allo Stato di Falcón. La loro presenza, in acque internazionali ma all’interno della Zona economica esclusiva (Zee) del Venezuela, alimenta il timore che la già infuocata crisi nei Caraibi possa trasformarsi in confronto diretto tra Washington e Caracas.

(Foto: il presidente del Venezuela, Nicolás Maduro).

La mossa si inserisce nel più vasto dispiegamento navale degli Stati Uniti nel Mar dei Caraibi del 2025, formalmente giustificato come guerra alle reti narco-terroristiche ma percepito dal governo di Nicolás Maduro come un’operazione di pressione militare per forzare un cambio di regime.

Manovre a ridosso della costa: cosa fanno Stockdale e Gettysburg

Secondo dati di tracciamento navale e registri marittimi, il cacciatorpediniere USS Stockdale, classe Arleigh Burke, e l’incrociatore USS Gettysburg, classe Ticonderoga, si sono mossi in formazione da ovest verso est, costeggiando Aruba e Curaçao prima di portarsi di fronte alle coste del Venezuela nord-occidentale. Entrambe le navi sono dotate del sistema di combattimento Aegis, con capacità avanzate di difesa aerea, antimissile e attacco di precisione.

La rotta scelta colloca i due mezzi in posizione ideale per monitorare lo spazio aereo e marittimo venezuelano, proteggere l’area di operazioni del gruppo da battaglia della portaerei Gerald R. Ford e, se necessario, lanciare missili e velivoli contro obiettivi a terra o contro unità sospette di traffico di droga.

L’arrivo di Stockdale e Gettysburg nella regione è stato preceduto, tra settembre e ottobre, da una serie di trasferimenti di unità navali attraverso il Canale di Panamá e da un progressivo rafforzamento della Quarta Flotta Usa, responsabile per le operazioni nell’Atlantico meridionale e nei Caraibi.

Un tassello del più grande build-up Usa nei Caraibi dal 1994

Il movimento delle due navi non è un episodio isolato, ma un tassello di un’operazione di ampio respiro. Da fine agosto gli Stati Uniti hanno avviato una massiccia campagna navale nella regione, inquadrata in una missione battezzata in codice come operazione contro i cartelli della droga e i gruppi definiti “narco-terroristi”.

Il dispositivo oggi schierato comprende:

  • la portaerei nucleare USS Gerald R. Ford con il suo gruppo da battaglia, entrata nell’area di responsabilità del Comando Sud statunitense l’11 novembre;
  • almeno una manciata di cacciatorpediniere e incrociatori missilistici dotati di sistema Aegis, tra cui proprio Stockdale e Gettysburg;
  • unità leggere di superficie, sottomarini d’attacco e velivoli da pattugliamento marittimo impegnati nel pattugliamento delle rotte del narcotraffico;
  • aerei da combattimento e droni armati coinvolti in raid contro imbarcazioni sospettate di trasportare droga, che secondo le stime più critiche hanno già provocato decine di morti nel solo 2025.

Analisi internazionali sottolineano come questo sia il più imponente dispiegamento militare Usa in America Latina dai tempi dell’intervento ad Haiti del 1994, con migliaia di militari, numerosi mezzi aerei e almeno otto grandi navi da guerra presenti stabilmente nell’area.

Caracas avverte: “Un conflitto nei Caraibi sarebbe devastante

Mentre le immagini satellitari mostrano le sagome grigie delle navi statunitensi davanti al litorale di Falcón, da Caracas arrivano parole durissime. Il presidente dell’Assemblea nazionale, Jorge Rodríguez, ha lanciato un monito che suona come un allarme a tutto il continente.

Le conseguenze di una guerra nei Caraibi sarebbero incalcolabili; il dolore non varrebbe mai il prezzo, per nessun Paese del continente, compresi gli Stati Uniti”, ha avvertito Rodríguez intervenendo sulla televisione pubblica, definendo il dispiegamento ordinato da Washington come la “forma massima di aggressione” contro il Venezuela.

Secondo il presidente del Parlamento, l’obiettivo reale della campagna navale non sarebbe tanto il contrasto al narcotraffico quanto la destabilizzazione di un governo che Caracas rivendica come legittimamente costituito. Il linguaggio usato richiama quello di precedenti crisi regionali, ma con una novità: stavolta il potenziale teatro di scontro non è il Medio Oriente, ma il cuore del Mar dei Caraibi, a poche decine di chilometri dalle coste venezuelane.

Il ministro degli Esteri: “Minacciati da chi esporta morte

A Rodríguez fa eco il ministro degli Esteri, Yván Gil, che respinge l’idea di un conflitto bilaterale cercato da Caracas. “Non abbiamo alcuna controversia con gli Stati Uniti”, ha ribadito, sostenendo però che il Venezuela si trova “minacciato unilateralmente da un Paese che utilizza la propria capacità di generare morte e distruzione”.

Per Gil, il massiccio dispiegamento navale Usa equivale a “un tentativo di invasione” e rappresenterebbe una violazione del diritto internazionale marittimo, pur avvenendo formalmente in acque internazionali. Qui si gioca una parte centrale della narrativa venezuelana: la presenza militare straniera nella Zee è presentata come anticipazione di un’operazione offensiva, e non come semplice pattugliamento contro i cartelli.

All’Onu la battaglia delle lettere e delle narrative

La crisi non si combatte solo in mare, ma anche nei palazzi di vetro di New York. L’ambasciatore venezuelano presso le Nazioni Unite, Samuel Moncada, ha annunciato l’invio di una lettera al segretario generale António Guterres per chiedere una condanna esplicita delle manovre Usa e il ritiro immediato delle forze americane dai Caraibi.

Nel documento, secondo quanto anticipato da Caracas, si contesta la “falsa parità” tra Washington e il governo venezuelano, sottolineando che un Paese con capacità militari globali non può essere equiparato a uno Stato regionale che si dice costretto a difendersi da una “minaccia imminente”.

La mossa diplomatica punta a spostare la discussione su un terreno più favorevole al Venezuela: quello del diritto alla legittima difesa e del divieto di uso unilaterale della forza. Resta da capire quanti Paesi saranno disposti ad allinearsi a questo appello, in un momento in cui molti governi latinoamericani cercano di evitare di schierarsi apertamente in un braccio di ferro sempre più polarizzato.

Maduro a Trump: “Yes, peace! Yes, peace!

In parallelo alla linea dura affidata ai suoi uomini di fiducia, il presidente Nicolás Maduro ha scelto il palcoscenico di una marcia filogovernativa a Caracas per lanciare un messaggio pubblico al presidente statunitense Donald Trump. Interrogato su quale fosse il suo appello alla Casa Bianca, Maduro ha risposto in inglese: “Yes, peace! Yes, peace!”.

Il leader chavista ha invocato la fine di quelle che definisce “guerre infinite” condotte dagli Stati Uniti negli ultimi decenni. “Basta Libia, mai più Afghanistan. Viva la pace”, ha scandito di fronte ai suoi sostenitori, insistendo sul fatto che il governo è “occupato a governare con la pace” e non teme un’aggressione militare imminente.

La sua strategia comunicativa è duplice: da un lato presentarsi come difensore della pace e dell’integrità nazionale, dall’altro ribaltare sulle spalle di Washington la responsabilità di qualunque escalation, mettendo in evidenza il divario di potenza militare tra i due Paesi.

La narrativa di Washington: guerra ai cartelli o pressione su Caracas?

Dalla capitale statunitense, la lettura è ben diversa. Il dispiegamento di Stockdale, Gettysburg e dell’intero gruppo della Gerald R. Ford viene presentato come parte di una campagna militare contro i cartelli del narcotraffico, accusati di utilizzare rotte caraibiche per far arrivare cocaina e altre droghe verso il mercato nordamericano.

La Casa Bianca ha definito alcuni grandi cartelli latinoamericani “combattenti illegali”, autorizzando l’uso della forza letale contro imbarcazioni sospette. Da settembre, numerosi raid in mare hanno colpito barche identificate come vettori di droga provenienti anche da porti venezuelani, con un bilancio di decine di persone uccise. Organizzazioni per i diritti umani e giuristi internazionali contestano però la legalità di questi attacchi, denunciando il rischio di esecuzioni extragiudiziali e danni collaterali ai civili.

Dietro la retorica della sicurezza, molti analisti vedono una strategia più ampia: logorare economicamente e politicamente il regime venezuelano colpendo i flussi di denaro generati dal traffico di droga e aumentando il costo del sostegno dei vertici militari a Maduro. La presenza ravvicinata di navi e aerei militari serve anche come messaggio diretto a Caracas: la finestra per una soluzione negoziata si sta restringendo.

Un’area già instabile: il rischio di incidente fatale

La combinazione di forze navali pesantemente armate in spazi ristretti, voli militari ravvicinati e retorica incendiaria da entrambe le parti rende il rischio di incidente estremamente elevato. In passato si sono già registrati sorvoli a bassa quota di aerei venezuelani su navi statunitensi e manovre che il Pentagono ha definito “provocatorie”.

In uno scenario simile, basterebbe un errore di calcolo – un radar che interpreta un segnale come minaccia, un colpo sparato per sbaglio, un pilota troppo aggressivo – perché la crisi degeneri in poche ore. A quel punto, le catene di comando di Washington e Caracas dovrebbero decidere se contenere lo scontro o imboccare la strada di una guerra aperta, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’intera regione.

Gli scenari possibili: deterrenza, negoziato o escalation

Al momento, la strategia statunitense sembra puntare su una deterrenza muscolare: mostrare forza sufficiente per intimidire il governo venezuelano e ridurre la capacità dei cartelli di operare nella regione. Dall’altra parte, Maduro e la sua cerchia cercano di capitalizzare politicamente la minaccia esterna, rafforzando il fronte interno e dipingendo l’operazione Usa come ennesima ingerenza imperialista.

Tre gli scenari principali delineati dagli osservatori:

  • Stallo controllato: le navi Usa restano nella regione per mesi, intensificando operazioni contro il narcotraffico ma evitando scontri diretti con forze venezuelane; Caracas continua a denunciarsi come vittima, ma si ferma alla retorica.
  • Escalation graduale: un incidente in mare o nello spazio aereo porta a un primo scambio di colpi, seguito da ulteriori raid mirati contro infrastrutture legate alla sicurezza venezuelana, con risposta asimmetrica di Caracas.
  • Canale negoziale: pressioni di attori regionali e di potenze extra-regionali spingono Washington e Caracas ad accettare meccanismi di de-conflitto e forse un accordo su corridoi marittimi e regole d’ingaggio nei Caraibi.

Molto dipenderà anche dalla capacità dei Paesi latinoamericani di parlare con una voce comune, chiedendo sia un freno al militarismo statunitense sia impegni concreti del governo venezuelano su democrazia, diritti umani e cooperazione contro il narcotraffico.

Perché il mondo deve guardare ai 50 km di Falcón

I cinquanta chilometri di mare tra le navi Usa e la costa del Falcón sono, in apparenza, solo un tratto di acqua internazionale. In realtà sono oggi uno dei punti più sensibili dell’ordine internazionale: lì si toccano il principio di libertà di navigazione rivendicato da Washington, il diritto alla sovranità e alla sicurezza brandito da Caracas e le fragilità di un sistema multilaterale che fatica a prevenire nuove guerre.

Se prevarrà il calcolo politico, i due Paesi riusciranno probabilmente a spingersi al limite senza oltrepassarlo, usando la crisi come leva nei rispettivi scenari interni. Se invece a dominare saranno orgoglio, errori e logiche di forza, i Caraibi rischiano di diventare il prossimo epicentro di uno scontro che nessuno, nelle dichiarazioni ufficiali, dice di volere. Per questo, guardare a quelle due sagome grigie che solcano il mare di fronte al Venezuela significa interrogarsi sul futuro stesso della sicurezza nel continente americano.

Fonti e cronologia essenziale

Le informazioni sul dispiegamento navale statunitense nei Caraibi provengono da dati di monitoraggio navale in fonte aperta, da comunicazioni ufficiali del Dipartimento della Difesa e della Marina Usa diffuse tra fine settembre e il 13 novembre 2025, nonché da analisi di centri studi e articoli della stampa internazionale pubblicati tra ottobre e novembre 2025. Le dichiarazioni delle autorità venezuelane citate nell’articolo sono state rese pubbliche il 13 novembre 2025 attraverso media e canali istituzionali di Caracas.

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