Per il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, i temi legati all’identità di genere non devono entrare nelle classi dei più piccoli. «Noi riteniamo, senza entrare in un giudizio sulle teorie gender, che per i bambini non sia opportuno insegnare che, oltre a un genere maschile e a un genere femminile, vi siano anche altri generi, che c’è questa fluidità per cui puoi tranquillamente passare da un sesso all’altro», ha detto a Mattino Cinque su Canale 5.
Valditara: “Teorie gender non opportune per i bambini”. La scelta passa alle famiglie
Dentro il ragionamento, la distinzione netta tra educazione sessuale e identità di genere, ed è su quel confine che il ministro piazza il suo argine: «Un conto è l’educazione sessuale, un altro la teoria gender». Valditara insiste: «Non vogliamo che nei bambini piccoli si possa creare confusione». La discussione – dice – potrà avvenire «legittimamente» solo quando «saranno adolescenti, con una maturità maggiore per comprenderla e gestirla». E per chi, anche tra i genitori, ritenga che neppure gli adolescenti debbano affrontare questi contenuti, interviene la “soluzione”: il consenso informato.
Scelta dei genitori, non dei programmi
«Abbiamo lasciato la scelta alle famiglie», ribadisce il ministro. La linea è quella di un filtro preventivo: prima di autorizzare corsi o moduli legati all’identità di genere, i genitori devono ricevere comunicazioni ufficiali, conoscere docenti, contenuti, materiali didattici. Se non acconsentono, il figlio frequenterà un corso alternativo. «È una scelta molto democratica», afferma Valditara. A sostegno della sua posizione cita l’articolo 30 della Costituzione: l’educazione spetta “originariamente” alle famiglie, la scuola viene dopo, come “supporto”.
Il clima intorno alla scuola
La decisione si inserisce in un terreno già fragile, dove la scuola si trova spesso a fare da bersaglio per paure più grandi del suo perimetro. Da una parte il timore di “indottrinamento”, dall’altra l’accusa opposta: il rischio di lasciare soli bambini e adolescenti proprio nei momenti in cui incontrano “per la prima volta” il tema identitario nella vita reale, non nelle aule. Per molte associazioni femminili e gruppi di psicologi scolastici, non parlare di identità di genere non significa proteggere, ma lasciare ancora più terreno all’isolamento. Per altre realtà, il pericolo è speculare: anticipare i temi, senza filtri genitoriali, sarebbe introdurre nelle primarie una grammatica emotiva troppo complessa.
Italia in controtendenza rispetto all’Europa
La linea scelta da Valditara va in direzione diversa rispetto ai programmi adottati negli ultimi anni da vari Paesi europei. In Francia e Spagna, i moduli introduttivi sul rispetto dell’identità personale e sul riconoscimento delle differenze sono stati inseriti già nella scuola primaria, senza consenso informato preventivo. In Italia, invece, lo Stato si ritrae e rimanda alle famiglie la prima parola. È un modo diverso di intendere la funzione della scuola: non luogo che educa “prima”, ma che educa “dopo”.
Una battaglia simbolica oltre i banchi
Il dibattito è più ampio della singola misura, perché tocca una domanda politica che precede quella scolastica: chi decide che cosa è adeguato per un bambino? Lo Stato? I genitori? Gli insegnanti? O, come sostengono alcuni esperti dell’infanzia, i bambini stessi, attraverso la realtà che incontrano? Per Valditara il punto resta fermo: il confine è l’età. Prima di affrontare certi temi, per il ministro, occorre che “siano cresciuti”. Ed è lì che si gioca lo scontro culturale di questi mesi: quando, esattamente, un cittadino diventa pronto a conoscere chi è?