USA: il ricordo dei neri uccisi per razzismo affidato a due immense trapunte

- di: Redazione
 
Dio ha fatto gli uomini a sua somiglianza. Ma se Dio ha fatto gli uomini uguali, Colt li ha fatto diversi. E poi, nella loro Costituzione, quella dei padri fondatori, gli Stati Uniti hanno voluto ribadire che "a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione".
Però poi c’è la vita, quella di ogni giorno, dove non sempre questi principi vengono rispettati, tanto che la questione della violenza mossa da motivazioni razziali (sarebbe più corretto dire, della razza della vittima) è un problema con cui, quasi quotidianamente, l’America è costretta a confrontarsi o, se volete, a pagare sulla sua pelle, soprattutto se la pelle è nera.
Centinaia tra libri, dichiarazioni, discorsi, film hanno affrontato il problema. Facciamo solo un esempio, che vale tanto. Il libro "To Kill a Mockingbird", di Harper Lee, arrivato in Italia con il titolo "Il buio oltre la siepe", usato anche per il film interpretato da un gigantesco Gregory Peck.

USA: il ricordo dei neri uccisi per razzismo affidato a due immense trapunte

Libro e film raccontano le vicende dell’avvocato Atticus Finch che, in una cittadina del Sud degli Stati Uniti, negli anni ‘60, difende un nero accusato - ingiustamente - dello stupro di una donna bianca.
Ma, per le dinamiche della comunicazione quotidiana, le violenze razziali, finito lo shock dettato dall’immediatezza, restano nell’aria, impalpabili, e ricadono sulla terra solo se qualcuno ha il coraggio di levare alto il vessillo dell’uguaglianza, della convivenza, del rispetto.
Come fece qualche anno fa Colin Kaepernic che, pur di denunciare le violenze sistematiche contro i neri da parte della polizia, gettò alle ortiche la sua carriera di giocatore professionista di football americano (guadagnava molti milioni di dollari, essendo uno dei migliori quarterback della Nfl). Kaepernic (nelle cui vene scorre sangue italiano, perché italiana d’origine è la madre, Heidy Russo) già nelle partite di preparazione alla stagione 2016, decise di esternare la sua protesta inginocchiandosi alle prime note dell’inno nazionale che, tradizionalmente, precede tutte le manifestazioni sportive negli Stati Uniti. Un gesto clamoroso, poi imitato da molti, che gli fece scatenare contro la rabbia di Donald Trump e dei suoi cerberi.

Ma l’America ha sempre vissuto un rapporto controverso con la questione razziale che, dopo la guerra di Secessione, ha covato sotto la cenere e non solo negli ex Stati confederati. E’ un problema che riemerge ciclicamente e che va di pari passo con un altro, non meno delicato: l’eccessivo uso della forza della polizia spesso canalizzata contro i neri e portata sino a epiloghi sanguinosi.
Però c’è una parte del Paese non vuole dimenticare e fa sentire la sua voce. Non è quella degli attivisti di Black lives matter, perché ha deciso di fare veicolare il suo messaggio in modo gentile, senza usare le piazze, quasi sussurrando agli altri che non puoi morire solo perché il colore della tua pelle è diverso o perché appartieni allo stesso gruppo etnico di bande che imperversano, cibandosi di violenza.
Forse per questo è nato, lo scorso anno, mentre il mondo era sconvolto dalla pandemia, un progetto che ha avuto come ideatrice una insegnante di matematica di un liceo di Eugene (in Oregon). Holli Johannes, questo il suo nome, ha pensato che fosse necessario andare oltre il ricordo e oltre il dolore dei familiari della violenza della polizia, individuando in un semplice oggetto di uso domestico, la trapunta, lo strumento per umanizzare questa tragedia.

116 persone, uccise per mano della polizia (poco interessa se è accaduto in modo giustificato o assolutamente no) o in altre circostanze violente, che sono rappresentate in porzioni di due grandi trapunte, che, a partire dal 17 dicembre, sono esposte in una sala del Margaret Walker, della Jackson State University.
Quante storie raccontate nei quadretti che le cucitrici si sono ingegnate a realizzare per dare, a chi guarda la loro opera, l’immediata percezione della disperazione che gesti sconsiderati hanno provocato. Solo immagini stilizzate, che, anche per il modo con cui sono state realizzate, negano di cogliere le fattezze di chi vi viene ritratto, se non che sono tutti neri, immancabilmente neri, drammaticamente neri.
Quasi silhouette, che sembrerebbero rappresentare degli omini di pan di zenzero, quelli che tradizionalmente accompagnano le festività americane. Ma quell’immagine statica, qui e lì abbellita da elementi o raffigurazioni di altri personaggi, non ha nulla di drammatico, se non la fine violenta di una vita.
E non sempre l’immagine racconta cose vere. C’è quella di un ragazzo di appena 17 anni che cammi na impettito nella giacca verde e gialla, i colori del college dove sarebbe andato con una borsa di studio di atletica, se non fosse stato ammazzato, insieme ad uno studente ventunenne, nel campus della Jackson University, un ateneo tradizionalmente frequentato da neri.

Ma lui non era uno studente della Jackson, passava dal campus per tornare a casa dopo avere finito di lavorare in una drogheria, per mettere qualche soldo in tasca. In quella sparatoria altre dodici persone rimasero ferite.
Ma nessuno ha mai pagato per la morte dei due studenti e il coinvolgimenti degli altri. Il progetto si chiama Stitch Their Names Memorial e, grazie all’impegno di Holli Johannes, ha raccolto, in tutti gli Stati Uniti, 75 ricamatrici provenienti da tutti gli Stati Uniti, ma anche alcune dall’estero, e che hanno adottato un diverso approccio all’opera.
Con altre persone, tutte volontarie, Holli ha lavorato un sito Web che racconta quello che le trapunte non possono dire, le biografie di ciascuna vittima. Non è una Antologia di Spoon River affidata alla rete, perché non potrebbe avere l’arguzia, la profondità, la sintesi, l’amore di cui trasudano i versi di Edgard Lee Masters.

È solo un modo per fare capire che, oltre le notizie, ci sono le storie. Promotrici ed attiviste del progetto si presentano con parole semplici e, per questo, comprensibili, come non sempre accade quando l’obiettivo è alto ed ambizioso. "Siamo" - si legge nel loro sito - "un gruppo di ricamatrici a punto croce e quilter in tutto il Paese (e oltre).
L’obiettivo di questo progetto è onorare l’eredità degli individui neri per i quali il razzismo e l’odio hanno portato alla loro morte. Molti cuori e mani (circa 100 persone) hanno lavorato per cucire i singoli ritratti di coloro che sono morti. Vogliamo onorare il fatto che ogni individuo perso rappresenti un tremendo dolore e dolore per coloro che lo hanno amato e per l’intera comunità.
Abbiamo cucito amorevolmente i ritratti in due pezzi d’arte trapuntati che viaggeranno e saranno esposti in tutto il Paese. In tal modo, speriamo di portare consapevolezza aggiuntiva alla perdita collettiva e la grandezza orribile di persone nere nel mirino di razzismo e intolleranza in questo Paese"
.

Così c’è la storia di un ragazzo di 23 anni, che l’immagine della trapunta ha cristallizzato mentre suona il violino.
Accanto a lui, un gatto che sembra ascoltarlo rapito.
Questo ragazzo, che faceva il massaggiatore, che amava profondamente gli animali e la musica (tanto da avere imparato, da solo, a suonare il violino e la chitarra), è stato ucciso due anni fa, ad Aurora, in Colorado, dalla polizia.
In un altro quadrante si vede un uomo con accanto due bambini.
Aveva 22 anni, era padre giovanissimo di due bimbi, privati del suo amore perché un poliziotto ha ritenuto fosse una cosa assolutamente normale sparargli all’interno di negozio di Walmart, in Ohio, davanti agli occhi atterriti di decine di persone. C’è Thurman Blevis III, che indossa un impeccabile completo nero e una cravatta celeste, ai cui piedi c’è un cane che, come testimoniano tre cuoricini che si alzano dalla testa della bestiola, lo ama.
C’è Manuel Ellis, con la sua imponente capigliatura afro, davanti alla sua amata batteria, mentre Paul Childs, poco più d’un bambino (come testimonia la maglietta a righe) è con la sua bicicletta.
Poi Amadou Diallo, con accanto una piccola bandiera con i colori della sua patria, il Senegal.
Quanti elementi per raccontare chi era Cinthya Graham Hurd, raffigurata con una grande torta in mano, accanto al suo gatto e ad una delle sue piante.
Alcuni accostamenti appaiono di difficile interpretazione se non si conosce la storia del protagonista, come quelli che nostrano, accanto all’immagine di Tywanza Sanders, una croce e una delle insegne bianche, rosse e blu caratteristiche delle barberie.

Poi, in una delle pezze ricamate, c’è l’immagine di un uomo di cui si intuiscono, oltre al colore della pelle, i corti capelli neri e i baffi che contornano la bocca.
La scritta sotto, fatta punto a croce, dice soltanto: The reverend dr. Martin Luther King jr. Non è la prima volta che negli Stati Uniti una causa viene sostenuta usando della trapunte.
Si chiama quilting e forse l’esempio più famoso risale agli anni ‘80 quando a Washington i grandi spazi davanti all’obelisco che ricorda il primo presidente americano furono ricoperti da trapunte che ricordavano, ciascuna, una delle vittime dell’Aids che mieteva vittime nel quasi totale disinteresse dello Stato federale.
Ma il quilting è profondamente legato alla cultura delle nere americane, che l’hanno sempre considerata una potente forma di attivismo, ma anche di recupero della storia, da parte di chi, come appunto le donne di colore americane, sentono di essere state escluse dalla società e dai suoi progressi.
La trapunta, quindi, come elemento caratterizzante di come una comunità, cui viene negato il diritto alla protesta, fa sentire la sua voce per dire quel che la Storia spesso non scrive, perché, come si dice, viene scritta dai vincitori. E se uccidi un nero spesso fai parte della schiera di chi ha vinto.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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