C’è una vignetta che gira ultimamente sui social: un cervello con braccia e gambe corre via, un bagaglio nella mano destra e nell’altra una laurea arrotolata. Ride amaro, chi la guarda. Perché quello siamo noi, i giovani che partono e non tornano, o forse siamo quelli che restano, spettatori impotenti di un Paese che perde linfa. Alessandro Foti, ricercatore al Max Planck di Berlino, ha dedicato un saggio a questo esodo silenzioso: Stai fuori! Come il Belpaese spinge i giovani ad andare via.
La nuova grande emigrazione: l'Italia dei cervelli in fuga
Non si tratta solo di numeri – anche se i numeri pesano, e parecchio. Un milione di italiani espatriati in dieci anni, l’intera popolazione di Napoli. Non è solo questione di statistiche. È la narrazione che manca. Il racconto di un Paese che non sa accogliere né trattenere, che forma giovani brillanti per lasciarli scappare.
Foti descrive una realtà crudele: non siamo un Paese che attrae, nonostante il sole, il cibo, l’arte. E mentre si blatera di invasione migratoria, il vero dramma scivola via inosservato. Dal 2018 al 2021, per ogni immigrato sbarcato in Italia, quasi quattro italiani sono partiti, molti dei quali laureati. È uno squilibrio che grida vendetta. Non si tratta solo di mancanza di lavoro: il problema è che le opportunità, quando ci sono, non sono dignitose. I salari sono bassi, il riconoscimento scarso, la carriera un miraggio.
Generazioni costrette a partire
La crisi del 2008 ha segnato una frattura: un’intera generazione ha visto sfumare ogni possibilità di costruirsi un futuro stabile. Da allora, l’emigrazione non si è mai fermata. I giovani italiani vanno in massa verso Paesi come Germania, Regno Unito, Francia. Lì trovano quello che in Italia manca: un mercato del lavoro più accessibile, salari migliori, meritocrazia. E soprattutto, rispetto.
Ma c’è un punto ancora più inquietante: l’Italia non è solo un Paese che perde giovani, è anche un Paese che non ne attrae dagli altri. Quanti francesi, tedeschi o spagnoli vediamo arrivare qui per lavorare? Pochissimi. L’Italia, per loro, è una meta turistica, non una terra dove costruire un futuro. Un campanello d’allarme che dovrebbe scuotere le coscienze, ma che sembra non interessare né alla politica né alla società.
Lo squilibrio dei cervelli
Se nel passato l’emigrazione era soprattutto legata alla mancanza di istruzione e competenze, oggi la fuga riguarda i più qualificati. Laureati, dottorandi, ricercatori, talenti formati a caro prezzo dalle nostre università, che scelgono di mettere le loro competenze al servizio di altri Paesi. Un paradosso: spendiamo risorse per formare eccellenze, e poi le regaliamo al mondo.
Nel solo 2021, secondo Foti, abbiamo perso l’1,3% dei nostri laureati tra i 25 e i 39 anni. Un dato che non fa altro che peggiorare ogni anno, aggravando il divario con gli altri Paesi europei. L’Italia forma pochi laureati rispetto alla media europea, e di questi pochi molti se ne vanno. Nel frattempo, il numero di laureati stranieri che scelgono l’Italia è il più basso in Europa. Non è più una “fuga di cervelli”, è un’emorragia.
Le conseguenze: un circolo vizioso
Quando un giovane se ne va, non è solo la sua persona che perdiamo. Lasciamo andare il suo potenziale, la sua capacità di innovare, il contributo che potrebbe dare alla crescita del Paese. È un danno che non si vede subito, ma che si manifesta nel tempo: territori sempre meno dinamici, economie che non crescono, un tessuto sociale che si impoverisce.
Le regioni del Sud, in particolare, sono le più colpite. Lì, l’emigrazione giovanile si somma a una mancanza cronica di investimenti. Ma il problema non è solo meridionale: è un’Italia intera che si svuota, perde energie, si condanna al declino.
Le proposte di Foti: cambiare rotta
Come si esce da questa spirale? Foti propone soluzioni che richiedono coraggio. Investire in istruzione e ricerca, innanzitutto. L’Italia è quintultima in Europa per spesa pubblica nell’istruzione: un dato che parla da solo. Occorre anche una riforma radicale del sistema universitario e del mercato del lavoro. Meno burocrazia, più trasparenza, salari più alti, percorsi di carriera chiari.
Foti invoca anche una rivoluzione culturale. Serve una nuova visione del lavoro, che metta al centro le persone, non il profitto. Perché un Paese che non valorizza i suoi giovani è un Paese senza futuro.
Un invito alla resistenza
Nelle ultime pagine del saggio, Foti lancia un messaggio ai giovani: resistere. Studiare, fare rete, non arrendersi. È un appello che suona come una chiamata alle armi, un invito a non accettare le cose come stanno. «Rompete i coglioni», dice Goffredo Fofi, citato dall’autore. Forse è questo il punto di partenza: non smettere di lottare per un’Italia migliore.
Un giorno, chissà, quel cervello con braccia e gambe tornerà a casa. Ma perché succeda, dobbiamo cambiare rotta, e farlo in fretta. Altrimenti, continueremo a perderci. Un pezzo alla volta.