C’è un confronto che, ciclicamente, torna a dominare il dibattito politico americano:
Donald Trump è diventato il nuovo Richard Nixon?
Non sul piano dello stile o delle biografie, ma su quello più spietato e misurabile del
gradimento popolare. I numeri dei sondaggi, nel 2025, hanno riaperto una ferita storica:
Trump è sceso sotto il 40% di approvazione, avvicinandosi a una soglia che, nella memoria collettiva,
porta un solo nome: Watergate.
Il paragone non è neutro né casuale. Nixon rappresenta ancora oggi
il punto più basso della fiducia presidenziale nell’America del dopoguerra.
Ogni presidente che scende verso quei livelli entra automaticamente in una categoria speciale:
quella dei leader che non governano più con il vento a favore, ma contro la corrente della storia.
Il dato che accende l’allarme
Nel secondo mandato, Trump ha visto il suo approval rating Gallup scendere fino al
36%. Non è il minimo assoluto della storia americana, ma è un numero che
fa rumore perché si colloca nella zona dei presidenti politicamente più fragili.
Per capirlo basta una semplice regola empirica: sotto il 40%, un presidente non è più solo
impopolare, è strutturalmente debole.
Debole non significa automaticamente destinato a cadere, ma significa governare
in condizioni di perenne difesa: ogni crisi pesa di più, ogni errore viene amplificato,
ogni successo fatica a essere riconosciuto. È la stessa trappola in cui Nixon rimase intrappolato
tra il 1973 e il 1974.
Nixon e il Watergate: il modello del crollo
Richard Nixon non precipitò in un giorno. Il suo consenso si sgretolò lentamente,
mentre il Watergate passava da scandalo confuso a
dimostrazione pubblica di abuso di potere.
Nel 1972 Nixon aveva vinto con una delle più ampie maggioranze della storia;
meno di due anni dopo, il suo gradimento scese fino al
24–29%, a seconda delle rilevazioni.
Quel crollo non fu solo numerico. Fu simbolico.
Quando il consenso di Nixon collassò, crollò anche il sostegno del suo stesso partito.
I repubblicani iniziarono a prendere le distanze, il Congresso cambiò atteggiamento
e la presidenza diventò improvvisamente isolata.
Il dato nei sondaggi anticipò la realtà politica: la fine era già scritta nei numeri.
Trump non è Nixon (ma nemmeno l’opposto)
Qui entra in gioco la grande differenza storica.
L’America di Nixon era un paese con media centralizzati,
elettorati più fluidi e una fiducia di fondo nelle istituzioni.
L’America di Trump è iper-polarizzata, frammentata,
con un elettorato che tende a non cambiare idea.
Questo rende il paragone più complesso ma anche più interessante.
Nixon scese a picco perché perse la sua base.
Trump, invece, mantiene un nucleo duro di consenso.
Proprio per questo, il suo 36–39% è politicamente più inquietante:
significa che al di fuori della base il consenso è quasi evaporato.
Il club dei presidenti sotto il 40%
Entrare sotto il 40% significa entrare in un club ristretto e scomodo.
Oltre a Nixon, pochi presidenti hanno frequentato quella zona:
Harry Truman (22% durante la guerra di Corea),
George W. Bush (25% nel 2008, tra crisi finanziaria e Iraq),
Joe Biden (36% nel 2024, tra inflazione e stanchezza elettorale).
In tutti questi casi, il dato non è stato un incidente,
ma il riflesso di una percezione diffusa:
il presidente non controlla più gli eventi.
Che si tratti di guerra, economia o fiducia morale,
il consenso crolla quando l’America sente di aver perso la bussola.
Economia e fiducia: il doppio tallone d’Achille
Nixon cadde per la fiducia.
Bush per la guerra e la recessione.
Biden per il costo della vita.
Trump oggi paga entrambe le dimensioni:
sfiducia istituzionale e
ansia economica.
I sondaggi mostrano che l’economia resta il principale fattore negativo,
ma il dato politico più corrosivo è un altro:
una quota crescente di americani ritiene Trump
divisivo anche per gli standard americani.
Quando la divisione smette di mobilitare e inizia a stancare,
il consenso non risale: scivola.
Il vero significato del paragone con Nixon
Dire “Trump come Nixon” non significa dire “Trump si dimetterà”.
Significa qualcosa di più sottile e più storico:
Trump governa con un livello di fiducia paragonabile
a quello di un presidente travolto da uno scandalo epocale.
È questo il dato che pesa.
Nixon non fu sconfitto solo dal Watergate,
ma dall’impossibilità di ricostruire un rapporto minimo di fiducia con il paese.
Quando quel ponte crolla, i sondaggi non sono più un problema di comunicazione,
ma un sintomo di crisi sistemica.
Il consenso come anticamera della storia
La storia americana insegna una lezione semplice e brutale:
i presidenti possono sopravvivere a molte cose,
ma non a lungo a un consenso strutturalmente basso.
Trump oggi non è Nixon nel 1974,
ma è più vicino a Nixon di quanto qualsiasi presidente
recente avrebbe voluto essere.
E quando il paragone con il Watergate smette di essere
una provocazione giornalistica e diventa
un riferimento statistico,
significa che l’America sta vivendo uno di quei momenti
in cui la politica smette di guardare al futuro
e inizia a fare i conti con il proprio passato.