Un cranio esposto sulle mura 2.000 anni fa svela la strategia del terrore con cui Roma annientò le ultime tribù cantabriche del Nord.
Un volto senza corpo, incastrato tra pietre crollate e legni marciti, riportato alla luce dopo 2.000 anni. È il cranio di un uomo adulto, circa 45 anni, probabilmente un capo militare cantabro, decapitato e “esposto in vetrina” dai Romani sulle mura dell’oppidum di La Loma, nel nord della Spagna. Non un semplice resto di battaglia: un trofeo costruito per parlare ai vivi, per dire ai ribelli delle montagne quello che li aspettava se avessero continuato a sfidare Roma.
Lo racconta uno studio interdisciplinare pubblicato nell’autunno 2025 su una prestigiosa rivista di archeologia romana, che analizza il cranio rinvenuto nel 2020 durante gli scavi del sito fortificato di La Loma, nel territorio di Palencia, in pieno cuore delle antiche guerre cantabriche.
Un cranio emerso dal crollo delle mura
Il cranio non è stato trovato in una tomba, né in una fossa comune. Giaceva invece sotto un tratto di muraglia crollata, in un’area identificata dagli archeologi come uno dei fronti più duramente colpiti durante l’assedio romano. I frammenti ossei erano mescolati a blocchi di pietra, chiodi e resti lignei: la fotografia di un collasso strutturale che ha sepolto, letteralmente, una scena di terrore.
Le analisi taphonomiche – cioè lo studio delle tracce lasciate sul corpo dai processi di esposizione e degrado – mostrano una superficie ossea sbiancata, screpolata, abrasa dal vento e dalla pioggia. Non ci sono segni compatibili con un colpo fatale alla testa in combattimento: niente fratture da impatto diretto, niente lesioni tipiche di un’arma che colpisce il cranio in battaglia. Quello che emerge è piuttosto la storia di un corpo ucciso altrove, decapitato con precisione e poi esibito all’aperto per mesi, prima che il tratto di mura su cui era appoggiato venisse abbattuto.
Lo studio, firmato da un team che combina archeologi di campo, antropologi forensi, genetisti e specialisti di radiocarbonio, ricostruisce la scena: la testa, privata della mandibola e di parte della calotta, era stata fissata in verticale, con la nuca aderente a una struttura interna; quando i Romani decisero di demolire la muraglia per impedire il ritorno degli abitanti, il cranio cadde e finì sepolto nello strato di crollo che lo ha protetto fino allo scavo moderno.
Il volto di un capo cantabro
Al di là dell’impatto emotivo, il cranio di La Loma è una miniera di dati. Le misure delle ossa e l’usura dentaria indicano un uomo robusto, sui 40-45 anni, non un giovane guerriero alle prime armi, ma qualcuno che aveva già vissuto molte stagioni di guerra.
Le analisi del DNA antico, incrociate con i dati genetici moderni, lo collocano nella continuità delle popolazioni della regione: cromosoma Y del gruppo R1b-DF27 e linea materna V20, combinazioni oggi frequenti tra gli abitanti del Nord della Spagna. Una conferma di quanto gli archeologi ricostruiscono sul piano storico: La Loma non era un avamposto di mercenari venuti da lontano, ma un oppidum indigeno, un centro cantabro che controllava valli e percorsi verso la costa.
In una società tribale come quella dei Cantabri, un uomo adulto, di corporatura solida, con tratti riconoscibili e legami familiari profondi, era il candidato ideale per il ruolo di dux, il capo che, in guerra, guida le difese dell’oppidum e incarna, da vivo, la coesione della comunità. Trasformarlo in trofeo significava colpire il vertice della piramide sociale.
La Loma, oppidum in prima linea nelle guerre cantabriche
La Loma si inserisce in una costellazione di siti fortificati che nel I secolo a.C. hanno fatto da teatro a uno dei capitoli più duri della conquista romana della penisola iberica: le guerre cantabriche, combattute tra il 29 e il 19 a.C., l’ultimo fronte aperto di una conquista durata due secoli.
Queste guerre non si svolgono nelle pianure del Lazio, ma in un paesaggio radicalmente diverso: montagne scoscese, gole, altipiani naturali facili da difendere e difficili da assediare. Gli oppida cantabrici – da Monte Bernorio a Las Rabas, da La Loma ad altri castros delle valli interne – sono nidi d’aquila fortificati, con mura, bastioni e accessi controllati. Proprio per questo Roma è costretta a mettere in campo ciò che ha di meglio: legioni esperte, ingegneri militari, campi d’assedio disposti a corona attorno alle alture, come raccontano gli studi di archeologia del conflitto condotti negli ultimi decenni.
Le datazioni al radiocarbonio e il confronto con le fonti scritte indicano che La Loma venne assediata e distrutta attorno al 25 a.C., in una fase in cui lo stesso Augusto è direttamente coinvolto nelle operazioni. Il cranio esposto sulle mura diventa così il frammento più concreto di un assedio che, fino a pochi anni fa, era solo una riga nei manuali di storia.
Come si costruisce un trofeo di terrore
Perché appendere la testa di un capo sulle mura? La risposta sta nella combinazione di conoscenze antropologiche e logistica militare. Chi conosce la struttura sociale delle tribù sa quanto il carisma del capo sia il collante che tiene insieme guerrieri e popolazione civile; chi comanda un esercito di professione sa che la guerra si vince anche spezzando la volontà di combattere.
È come se quello sguardo vuoto avesse detto ai superstiti, e a chiunque passasse di lì: “Ecco cosa succede a chi guida la ribellione: Roma non colpisce in basso, colpisce in alto”. Il messaggio è duplice: alla comunità, che vede la propria guida ridotta a oggetto; alle tribù vicine, che possono riconoscere il volto e trarne un avvertimento.
Gli archeologi sottolineano che molti dettagli rimangono ignoti: non sappiamo se la testa fosse infilata su un palo, fissata a un supporto ligneo o murata in un incavo apposito. La posizione del cranio, la sua inclinazione, la distribuzione delle abrasioni fanno però pensare a una esposizione prolungata in verticale, con le intemperie a consumare lentamente il volto.
Un tassello nella tradizione dei “capita hostium”
La scena di La Loma non è un unicum isolato nella storia del Mediterraneo antico. Da tempo gli studiosi parlano di un forte legame tra il mondo celtico e il simbolismo della testa mozzata, un tema che affiora sia nei testi degli autori greco-romani sia nei reperti archeologici della Gallia e delle isole britanniche.
La novità del cranio cantabro è che qui non sono i Celti a esibire la testa del nemico, ma Roma che usa le stesse armi simboliche contro di loro. Proprio lo studio su La Loma richiama, per esempio, un celebre rilievo della Colonna Traiana a Roma, dove soldati offrono all’imperatore le teste decapitate dei Daci vinti: un’immagine scolpita alla fine del I secolo d.C., che testimonia come la pratica di esporre i capi nemici sia pienamente inserita nell’arsenale comunicativo dell’esercito romano.
La differenza è che, nel caso dei Cantabri, non abbiamo solo la pietra scolpita, ma l’osso stesso: la materia viva trasformata in monumento di paura.
Archeologia di guerra nelle montagne di Castiglia
Negli ultimi vent’anni la ricerca archeologica sulle guerre cantabriche ha fatto un salto di qualità. Non si studiano più soltanto le monete o qualche reperto isolato, ma si prova a ricostruire l’intero teatro di operazioni: campi legionari, linee di assedio, oppida indigeni, percorsi di marcia.
L’istituto che lavora su Monte Bernorio e La Loma ha sviluppato un approccio integrato: scavi estensivi, prospezioni con droni, rilievi LiDAR per leggere nel dettaglio i terrazzamenti e le opere difensive, e poi analisi di laboratorio che vanno dalle microtracce sui reperti metallici alle sequenze genetiche degli individui coinvolti nei combattimenti.
Nel caso di La Loma, accanto al cranio sono venuti alla luce centinaia di proiettili – punte di freccia, giavellotti, dardi incendiari – e frammenti di armature danneggiate, prova di uno scontro violentissimo sotto le mura. Gli studi più recenti indicano che, oltre alla testa del capo, altri resti umani potrebbero aver subito forme di esposizione punitiva: nell’area dell’ingresso principale, frammenti cranici potrebbero raccontare altri episodi di “giustizia esemplare” romana.
Dal trofeo di paura alla memoria storica
Il cranio di La Loma è, in apparenza, il simbolo di una violenza unidirezionale: l’impero che schiaccia la ribellione. Ma per gli archeologi, e per chi oggi vive nelle valli cantabriche, è anche qualcos’altro: un frammento di memoria restituita.
Per secoli le guerre cantabriche sono rimaste un episodio marginale nei manuali scolastici, spesso ridotto a poche righe sulla “pacificazione” del Nord della Spagna. La combinazione di scavi sistematici, studi sul paesaggio, ricerche sul DNA antico e pubblicazioni internazionali sta cambiando questa percezione: le campagne di Augusto appaiono ora come una guerra lunga, dura, tecnologicamente sofisticata, combattuta contro comunità che difendono con ostinazione il proprio territorio.
In questo quadro, la testa esposta sulle mura di La Loma riassume in un’unica immagine il rapporto di forza tra chi conquista e chi resiste: da un lato un esercito addestrato a usare il terrore come strumento politico, dall’altro una società tribale che deve fare i conti con l’eliminazione fisica e simbolica della propria guida.
È come se quel volto, oggi privo di carne ma non di significato, ci parlasse ancora: “Io ero il capo del villaggio. Mi hanno tolto la voce, ma non la storia”.
Cosa ci dice oggi quella testa sulle guerre di ieri (e di domani)
Alla fine il cranio di La Loma non è solo un reperto “macabro” buono per i titoli sensazionalistici. È un laboratorio di domande contemporanee. Quanto è antico l’uso del terrore come linguaggio della politica? Quanto pesa, nella memoria collettiva, la scelta di colpire i leader per disciplinare intere popolazioni? Quante colline, nel mondo, portano ancora tracce invisibili ma profonde di messaggi di paura lasciati come avvertimento?
L’ossessione romana per i “capita hostium”, le teste dei nemici, scolpite nei rilievi e appese sui bastioni, trova nella collina di La Loma un esempio di rara concretezza. In un singolo cranio si concentrano la strategia militare, la gerarchia tribale, la propaganda del vincitore e la fragilità del vinto.
Oggi, mentre gli archeologi continuano a scavare e i laboratori affinano le tecniche di analisi, quel capo decapitato diventa paradossalmente più presente di quanto lo fosse 2.000 anni fa. Allora parlava solo ai pochi che passavano sotto quelle mura; ora, grazie alle ricerche scientifiche e alla divulgazione internazionale, la sua storia viaggia ben oltre la valle di Palencia. E ci costringe a guardare in faccia una verità poco rassicurante: nella storia, la paura è stata – e resta – una delle armi più efficaci.