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Trump spinge verso lo stato autoritario: ora nel mirino è la stampa

- di: Marta Giannoni
 
Trump spinge verso lo stato autoritario: ora nel mirino è la stampa
Trump spinge verso lo stato autoritario: la stampa nel mirino
Una querela da 15 miliardi come arma politica.

Donald Trump ha trasformato la giustizia in clava. Il 16 settembre 2025 ha depositato in Florida una causa per diffamazione da 15 miliardi di dollari contro il New York Times, quattro suoi giornalisti e l’editore Penguin Random House: nel mirino tre articoli e un libro che, a suo dire, avrebbero diffamato la sua persona e danneggiato i suoi affari. Il Times ha replicato secco: “Causa priva di fondamento, un tentativo di soffocare il giornalismo indipendente” (ha dichiarato la testata). I fatti, la sede e gli atti sono chiari. Il disegno pure: ridurre al silenzio il dissenso, colpendo il bersaglio simbolo della stampa libera americana.

La frase che svela la deriva

Non è un episodio isolato né una scivolata: è un tassello di una strategia. Nelle stesse ore, dagli account social e nelle uscite pubbliche, Trump ha promesso di “fermare” i media che bolla come “radicali di sinistra”, ribadendo la narrativa della stampa come nemico politico. È la grammatica classica della stretta autoritaria: definire il nemico, delegittimarlo, colpirlo con strumenti economici e legali. Le cronache americane registrano un crescendo di contenziosi contro testate e broadcaster: dopo l’azione contro il Wall Street Journal e gli accordi economici rivendicati contro altre emittenti, la linea è chiara. Non è informazione: è intimidazione.

Come funziona l’effetto paura

Le maxi-cause non servono soprattutto a vincere in tribunale: servono a spaventare. Redazioni più piccole, editori indeboliti, giornalisti che sanno che anche un’inchiesta granitica può costare anni di carte e milioni in parcelle. Gli esperti di diritto ricordano che negli Stati Uniti le figure pubbliche devono superare lo standard dell’“actual malice” — dimostrare cioè che il giornale sapeva di mentire o ha agito con sprezzo della verità — una barriera altissima fissata nel 1964 proprio per evitare che i potenti imbavagliassero la stampa. Ma intanto il messaggio passa: “Chi osa, paga”. E la temperatura della libertà cala.

Il punto di non ritorno

C’è un pluralismo apparente, certo: nessun editto, nessuna censura ufficiale. Ma la sostanza non cambia. L’uso sistematico della giustizia come strumento politico, la demonizzazione quotidiana dei critici, la riduzione del giornalismo a “partito avverso” — tutto questo configura un passo ulteriore verso lo stato autoritario. È la stessa traiettoria vista altrove: prima l’insulto e la delegittimazione, poi le querele-ghigliottina, infine le leggi “per la sicurezza” che restringono campo e risorse. Non serve arrivare agli arresti: basta soffocare economicamente, trasformare la critica in calunnia per definizione, erodere la fiducia del pubblico nell’idea stessa di stampa indipendente.

Cosa c’è nella causa e perché conta

Negli atti depositati in Florida si attacca, tra l’altro, un editoriale pre-elettorale che giudicava Trump “inadatto all’incarico” e il libro “Lucky Loser” (Penguin Random House), accusati di “distorsioni ripugnanti” e di aver danneggiato i suoi interessi economici, inclusa la valutazione del gruppo mediatico a lui riconducibile. La replica degli editori è netta: la querela “mira a scoraggiare la cronaca indipendente”. Tutto nel copione: si criminalizza la critica politica, si monetizza la reputazione del leader, si trascina la stampa in un campo minato giudiziario.

Oltre il caso singolo: un attacco al diritto di sapere

Ridurre il giornalismo a tifo è il colpo più subdolo. Se un’inchiesta su affari, amicizie pericolose o abuso di potere diventa automaticamente “odio ideologico”, ogni fatto è travolto dall’etichetta. È qui che si gioca la qualità della democrazia: il diritto dei cittadini a sapere come si comporta chi governa. E quando il potere tratta domande e verifiche come offese personali, spezza il patto liberale tra istituzioni e opinione pubblica.

I precedenti che confermano il disegno

La causa contro il Times non è un unicum: lo stesso 2025 è punteggiato da azioni legali e rivalse economiche contro testate che hanno pubblicato ricostruzioni sgradite. Si chiama “chilling effect”: non serve vincere, basta gelare l’ambiente. I grandi gruppi resistono; chi sta un gradino sotto può scegliere la prudenza, autocensurarsi, rinunciare a storie scomode. Esattamente il risultato cercato da chi mira a concentrare il potere.

Un principio da difendere, non da studiare sui manuali

Sessant’anni fa la Corte Suprema fissò lo standard che ha reso possibile un dibattito “robusto, caustico e senza sconti” sui funzionari pubblici. Oggi quel principio non è un capitolo di storia costituzionale: è una linea del fronte. Se passa l’idea che la critica politica è un reato patrimoniale da miliardi, il giornalismo diventa un lusso per temerari. E i cittadini perdono la protezione di chi indaga per conto loro.

Parole e responsabilità: le frasi, le date, i luoghi

“Causa per 15 miliardi contro il New York Times” annunciata e depositata in Florida il 16 settembre 2025. “La causa è senza merito e intende soffocare il giornalismo indipendente”, ha replicato il New York Times. In parallelo, la campagna contro i media prosegue con querele e rivalse economiche annunciate pubblicamente tra il 2024 e il 2025.

Chiamare le cose col loro nome

Questo non è un contenzioso tra privati. È potere esecutivo che, per mano del suo leader, aggredisce l’architrave del controllo pubblico: la stampa. È un atto verso lo stato autoritario. In democrazia, i giornali non si intimidiscono con i miliardi, si smentiscono con i fatti. Qui non vediamo una rettifica, ma un’offensiva. E a un’offensiva si risponde con ciò che i regimi temono di più: inchieste meticolose, verifica dei documenti, trasparenza. 

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