Cronache dai Palazzi: il combattuto ''no'' di Meloni a ''Ursula'', tra coerenza e pragmatismo

- di: Redazione
 
L'esito del voto che ha portato alla rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea, sta lasciandosi dietro una scia di polemiche in un'Italia che di tutto avrebbe bisogno in questo momento storico meno che di sentirsi isolata. Sentirsi e non necessariamente esserlo, perché il peso del Paese in Europa resta, anche se l'essersi messi contro von der Leyen non è stata scelta politica da poco, quindi, destinata a creare qualcosa più che semplici polemiche.

Cronache dai Palazzi: il combattuto ''no'' di Meloni a ''Ursula'', tra coerenza e pragmatismo

Pensare che Giorgia Meloni potesse votare per la rielezione della presidente uscente della Commissione avrebbe dovuto avere un presupposto: che da parte di von der Leyen ci fossero aperture, seppure simboliche, sugli argomenti per i quali l'inquilino di Palazzo Chigi aveva posto delle condizioni, come la politica esasperatamente verde di Bruxelles.
Cosa - ovvero l'ammorbidimento della deriva fortemente ideologizzata delle politiche green - che von der Leyen non ha pensato nemmeno per un istante di fare. Tanto che, alla fine, ha incassato l'appoggio dei Verdi che, con i loro voti, hanno in qualche modo annullato l'effetto ''franchi tiratori'' che si è manifestato anche questa volta in seno alla coalizione di maggioranza.

La flebile speranza che forse s'era fatta strada in Giorgia Meloni - cioè che dal discorso programmatico di ''Ursula'' trasparisse un segnale di apertura - si è immediatamente disintegrato, mettendo il presidente del consiglio davanti ad un falso bivio. Perché se avesse deciso di votare per la conferma della presidente uscente avrebbe disconosciuto tesi che porta avanti da tempo, ma se non lo avesse fatto, per come poi ha deciso, avrebbe messo l'Italia a rischio di emarginazione nel panorama politico brussellese.

Il difficile, per Giorgia Meloni, ma soprattutto per l'Italia, comincia ora perché bisognerà cominciare a tessere una rete di relazioni che il ''no'' di Fratelli d'Italia potrebbe avere seriamente compromesso. E il peso di questa azione diplomatica che ha tempi strettissimi (dei commissari, se già non si è cominciato a farlo informalmente, si parlerà ufficialmente in agosto) ad oggi grava sulle spalle di Antonio Tajani, su cui si fondono due profili apparentemente antitetici: vicepresidente del consiglio e quindi alleato di Giorgia Meloni in un governo di Destra-Centro, ma anche esponente del Ppe, azionista di riferimento della riconferma di Ursula. La trattativa verte essenzialmente sul peso che in seno alla Commissione sarà attribuito al rappresentante italiano. Cioè se sarà una delega di peso (già intestata a Raffaele Fitto) o no. Traducendo alla luce del necessario pragmatismo che si impone in questi casi, ogni soluzione che non preveda per l'Italia una vicepresidenza esecutiva (che porti chi ne è titolare dentro la camera decisionale della Commissione) sarebbe per il Paese una ''quasi'' sconfitta, in considerazione della storia dell'Ue, della situazione economica, del peso politico.
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