FOTO (Cropped): Tom A. Kolstad/Det norske samlaget - CC BY-SA 4.0
“La voce di Dio è il silenzio”. Con queste parole, Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023, ha accolto il pubblico romano riunito in Campidoglio, dove ha ricevuto la Lupa Capitolina. Scrittore schivo, profondo, avverso a ogni forma di esibizione, Fosse incarna una controfigura rara nella scena culturale europea: quella dell’autore che non vuole spiegare, ma lascia interrogativi. In un’epoca di narrazione compulsiva, la sua voce – calma, spezzata, essenziale – è un invito alla sospensione, alla sottrazione, alla lentezza. Più che un autore, un testimone del non detto.
Jon Fosse: il Nobel del silenzio e delle domande
La scrittura di Fosse attraversa generi diversi, ma ha una coerenza interna che la rende riconoscibile in ogni pagina. Il suo teatro è costruito sull’intervallo: battute brevi, ripetute, personaggi che parlano a vuoto, che si cercano e si mancano. È una scrittura che lavora sulle pause più che sulle affermazioni, e che per questo spesso è stata accostata a Beckett. Ma se Beckett scivolava verso l’assurdo, Fosse tende all’invisibile. Nei suoi romanzi – Trilogia, Sette giorni, Melancholia – si percepisce un misticismo laico, un’apertura alla trascendenza che non ha bisogno di dogmi, solo di spazio.
Scrivere per ascoltare
“Non scrivo per raccontare storie, ma per ascoltare il silenzio da cui nascono”, ha detto Fosse a Roma. È in questa dichiarazione che si concentra il cuore del suo pensiero letterario. Per lui, la parola è un gesto minimo, quasi un inciampo. Ma è proprio in quel minimo che si apre la possibilità di verità. Non una verità affermativa, ma una verità come tensione. Una letteratura che non consola, non spiega, non intrattiene. Che invece chiede tempo, presenza, disponibilità alla frattura.
Una spiritualità sobria, inquieta
Fosse ha raccontato di aver ritrovato nella fede cattolica uno spazio di silenzio compatibile con la sua scrittura. Ma è una fede che non si impone, che non si proclama. È un Dio che tace, che lascia vuoti, che chiede attesa. “Non credo in un Dio che dice, ma in un Dio che resta dopo che tutte le parole sono finite”. Il suo non è un ritorno alla religione, ma una migrazione verso il sacro come mistero, come soglia. Anche per questo le sue opere, così asciutte, sono profondamente spirituali: perché non offrono nulla, ma aprono.
Roma come memoria del sacro
Durante il suo soggiorno, Fosse ha visitato alcune chiese antiche della Capitale: San Clemente, Santa Maria in Trastevere, San Giovanni in Laterano. “Qui – ha detto – le pietre parlano. Non impongono, ma ricordano”. Per lui, Roma è una città che ha saputo custodire la dimensione del mistero, quella che altrove è stata rimossa o spettacolarizzata. Il suo sguardo ha evitato i luoghi-simbolo della monumentalità, preferendo gli angoli silenziosi, le cripte, i chiostri. Quelli dove il tempo rallenta e si può ascoltare il vuoto.
Un premio che interpella la cultura europea
Il Nobel a Fosse è un segnale forte. È il riconoscimento a una letteratura che non si piega alla logica della performance, dell’identità ostentata, della narrazione come prodotto. È una scelta che interpella l’editoria, le accademie, la critica: si può ancora scrivere per stare zitti? Si può ancora chiedere al lettore di non capire, ma di sentire? In un continente che ha perso molte certezze, Fosse porta la più destabilizzante di tutte: la domanda che resta senza risposta.
La parola come atto politico del silenzio
A chi gli ha chiesto cosa resterà della letteratura, Fosse ha risposto: “Resterà ciò che è scritto nel silenzio”. Una frase che oggi suona come un manifesto. Nel tempo del rumore, delle opinioni, della fretta, la sua opera è un atto di resistenza. La scrittura non per convincere, ma per rendere poroso il linguaggio. Non per dichiarare, ma per custodire il dubbio. In un mondo che teme il vuoto, Jon Fosse ci ricorda che proprio lì – nel vuoto, nell’interruzione, nel non detto – si può ancora trovare qualcosa di sacro.