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Hegseth, dal “non obbedite” all’ordine “uccideteli tutti”

- di: Bruno Coletta
 
Hegseth, dal “non obbedite” all’ordine “uccideteli tutti”
Hegseth, dal 'non obbedite' all'ordine 'uccideteli tutti'
Il video del 2016 che lo smentisce, lo scontro con i “Sei sediziosi” e l’ombra dei crimini di guerra nei Caraibi.

Nel giro di pochi anni Pete Hegseth (qui quando era giornalista alla Fox) è passato dall’elogiare i militari che rifiutano ordini illegali a guidare una crociata contro chi, in Parlamento, ripete lo stesso principio. E mentre definisce “sediziosi” sei deputati e senatori democratici che invitano le forze armate a non violare la legge, il segretario alla Difesa di Donald Trump è travolto da un’altra tempesta: l’accusa di aver ordinato “uccideteli tutti” in un raid contro sospetti narcotrafficanti nel Mar dei Caraibi.

L’emersione di un video inedito del 2016, rilanciato da Cnn e ricostruito da diversi media, mostra un Hegseth molto diverso da quello che oggi guida il Pentagono e chiede indagini e possibili procedimenti contro il senatore dell’Arizona Mark Kelly. La contraddizione è brutale, e pone al centro una domanda politica e giuridica: chi decide che cosa è un “ordine illegale” e chi può dirlo ad alta voce senza finire sotto inchiesta?

Il video del 2016: quando Hegseth difendeva il rifiuto di ordini illegali

Il filmato risale al 2016, quando Hegseth era ancora soprattutto un volto di Fox News e un attivista conservatore, non il capo del più potente apparato militare del pianeta. In un intervento a un evento pubblico, ripescato anni dopo e attribuito a un incontro organizzato nella Silicon Valley, il futuro segretario alla Difesa discuteva di crimini di guerra e responsabilità dei soldati.

In quell’occasione Hegseth sosteneva che, di fronte ad azioni “completamente illegali e spietate”, devono esserci conseguenze e che proprio per questo le forze armate statunitensi non avrebbero eseguito ordini illegittimi provenienti dal loro commander-in-chief. Richiamava esplicitamente l’idea di uno “standard” etico e di un codice che rende i militari americani “al di sopra” di ciò che farebbero i nemici.

Oggi quello stesso ragionamento è al centro dello scontro politico: la frase “non eseguite ordini illegali”, che nel 2016 Hegseth inseriva nel solco dell’etica militare, è diventata – nella sua lettura attuale – una forma di sedizione quando a pronunciarla sono sei parlamentari democratici.

I “Sei sediziosi”: il video dei dem, l’ira di Trump e l’indagine sul senatore Kelly

Tutto esplode a metà novembre 2025, quando un gruppo di sei esponenti democratici con passato nelle forze armate o nell’intelligence – tra cui il senatore dell’Arizona, ex comandante della Marina e astronauta, Mark Kelly – pubblica un video rivolto direttamente ai militari e agli operatori della sicurezza nazionale.

Il messaggio, in sé, è lineare: ricordare che le leggi sono chiare e che chi indossa l’uniforme ha il dovere di rifiutare ordini illegali o incostituzionali. Nel video si sottolinea che la minaccia alla Costituzione non viene solo dall’esterno, ma può arrivare anche “da qui, da casa”, e si ribadisce che “potete rifiutare ordini illegali, dovete rifiutare ordini illegali”.

Per Trump la clip è un atto di guerra politica. Il presidente definisce i sei parlamentari “traditori”, chiede il loro arresto e arriva a evocare la pena di morte per sedizione. Hegseth si allinea subito: battezza il gruppo come i “Sei sediziosi”, liquida il video come “spregevole, sconsiderato e falso” e denuncia che incoraggiare i soldati a ignorare gli ordini dei superiori minerebbe “il buon ordine e la disciplina” nelle forze armate.

La mossa successiva è ancora più pesante. Il Pentagono annuncia l’apertura di una indagine formale su Mark Kelly, precisando che tra i sei è l’unico ancora pienamente soggetto al Codice Uniforme di Giustizia Militare (UCMJ) in quanto ex ufficiale in pensione che percepisce benefici. In teoria, ciò potrebbe portare persino a un richiamo in servizio per un eventuale processo di corte marziale legato alle sue parole nel video.

Kelly, da parte sua, non arretra. In interviste televisive definisce “ridicole” le minacce di Trump e di Hegseth, li accusa di voler intimidire e “zittire” chi li critica, e ricorda che invitare a rispettare la legge non è un atto di sedizione ma esattamente ciò che richiede l’ordinamento militare statunitense. L’episodio si inserisce in un più ampio clima di tensione politica, segnato da violenze e da un uso sempre più aggressivo degli strumenti di sicurezza contro gli avversari.

Dai Caraibi a Washington: il raid “uccideteli tutti” e l’ombra dei crimini di guerra

Lo scandalo sugli ordini illegali sarebbe già esplosivo così, ma c’è di più. Da settimane Hegseth è al centro di un caso ancora più grave: la campagna di attacchi letali contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti nel Mar dei Caraibi, condotta sotto il cappello della guerra ai “narcoterroristi”.

Secondo inchieste giornalistiche statunitensi e internazionali, uno degli episodi chiave è un raid del 2 settembre 2025 contro una barca sospettata di trasportare droga, nelle acque tra Venezuela e Trinidad. Il primo missile avrebbe distrutto l’imbarcazione, uccidendo la maggior parte dell’equipaggio. Due sopravvissuti, emersi in acqua, sarebbero stati colpiti da un secondo attacco, ordinato per “non lasciare nessuno vivo”.

Qui entra in scena la frase che perseguita il segretario alla Difesa: secondo fonti interne e ricostruzioni giornalistiche, Hegseth avrebbe impartito l’ordine di “uccidere tutti”, lasciando intendere che l’obiettivo non fosse solo neutralizzare una minaccia, ma eliminare fisicamente chiunque si trovasse a bordo. Il comando operativo della missione, guidato dall’ammiraglio Frank “Mitch” Bradley, viene oggi indicato dalla Casa Bianca come responsabile diretto del secondo strike; ma giuristi e osservatori sottolineano che un ordine di questo tipo, se confermato, configurerebbe un crimine di guerra.

Il caso non è isolato. Da settembre, secondo vari conteggi, le operazioni simili nella regione avrebbero provocato decine di morti. Alcune famiglie, come quella del colombiano Alejandro Carranza Medina, ucciso in un altro attacco contro una barca poi descritta da Bogotá come un semplice peschereccio, hanno già presentato ricorsi presso organismi internazionali, accusando gli Stati Uniti di esecuzioni extragiudiziali. L’insieme di questi episodi alimenta l’accusa che la dottrina Hegseth assomigli a una “licenza di uccidere” fuori dal perimetro della legge.

Davanti alle commissioni del Congresso e alla stampa, Hegseth ha finora invocato il “fog of war”, la nebbia della guerra, ha negato di aver ordinato di non lasciare superstiti e ha scaricato la responsabilità del secondo missile sull’ammiraglio sul campo. Ma le sue stesse ammissioni – come il fatto di aver seguito in diretta l’operazione, di aver saputo dei sopravvissuti poche ore dopo e di aver comunque continuato a difendere la missione – rendono sempre più difficile separare la catena di comando politica da quella operativa.

Un “guerrafondaio” alla guida del Pentagono: ascesa e radicalizzazione di Hegseth

La figura di Hegseth non nasce dal nulla. Ex ufficiale della Guardia Nazionale dell’Esercito, veterano di Iraq e Afghanistan, commentatore di punta di Fox News e volto del trumpismo televisivo, viene scelto da Trump come segretario alla Difesa nel suo secondo mandato con l’intento dichiarato di imporre un “warrior ethos”, un’ideologia del combattente duro, spregiudicato, poco incline a farsi frenare da giuristi e burocrazia.

La sua conferma al Senato, nel gennaio 2025, arriva solo grazie al voto decisivo del vicepresidente JD Vance, dopo un pareggio 50-50 in Aula e una pioggia di critiche su presunte molestie, eccessi di alcol, vicinanza a simboli dell’estrema destra e disprezzo per le regole della guerra. Fin da subito Hegseth si presenta come il ministro che vuole “liberare” i militari dai vincoli del diritto internazionale umanitario, rivedere le regole di ingaggio e mettere al centro la “libertà d’azione” dei combattenti sul campo.

Una linea ribadita anche in un libro uscito di recente, in cui Hegseth racconta episodi delle guerre in Iraq e Afghanistan e ammette di aver spinto i suoi uomini a ignorare i consigli dei legali militari quando riteneva che le regole di ingaggio fossero troppo restrittive. Juristi ed ex ufficiali JAG (i giudici avvocati militari) hanno definito queste posizioni “pericolose”, ricordando che proprio il rispetto delle regole di guerra distingue un esercito professionale da formazioni abusive o paramilitari.

La contraddizione centrale: chi può dire “non obbedite agli ordini illegali”?

Ed eccoci al cuore del paradosso. Quando la frase “non seguite ordini illegali” esce dalla bocca di un opinionista conservatore che attacca un’amministrazione democratica, viene salutata come prova di integrità morale dei militari. Quando viene pronunciata da parlamentari democratici, in un video che richiama l’UCMJ e i doveri costituzionali delle forze armate, diventa – nella narrazione di Trump e di Hegseth – una minaccia all’ordine, un invito alla rivolta.

In realtà, il diritto militare statunitense è molto chiaro: i soldati devono obbedire agli ordini legittimi ma hanno l’obbligo di rifiutare quelli manifestamente illegali. È un principio scolpito nella giurisprudenza post-Norimberga e ribadito a ogni scandalo di crimini di guerra: “stavo solo eseguendo gli ordini” non è una giustificazione sufficiente se l’ordine viola la legge.

È proprio questo principio che Kelly e i colleghi dem rivendicano nel video finito nel mirino. E, ironicamente, è lo stesso principio che il Hegseth del 2016 sembrava riconoscere quando spiegava che i militari non devono seguire comandi “completamente illegali e spietati”. La differenza sta nel contesto politico: allora l’obiettivo polemico era la Casa Bianca di Barack Obama, oggi sono i parlamentari che denunciano gli eccessi del secondo mandato di Trump.

La scelta di usare il Pentagono per indagare un senatore in carica per un video che ribadisce concetti presenti nei manuali militari, mentre lo stesso Dipartimento della Difesa è accusato di condurre operazioni letali ai limiti – e forse oltre – del diritto internazionale, rafforza l’impressione di un apparato di sicurezza piegato alla logica della rappresaglia politica.

Cosa c’è in gioco per la democrazia americana

Il caso Hegseth non è un dettaglio nella cronaca del trumpismo 2.0, ma un test cruciale per i rapporto tra potere civile, esercito e stato di diritto negli Stati Uniti.

Da un lato c’è una Casa Bianca che pretende fedeltà personale al presidente e considera “sedizioso” chi ricorda che la vera lealtà dei militari va alla Costituzione. Dall’altro c’è una lunga tradizione di autonomia professionale delle forze armate, che hanno sempre presentato il rifiuto degli ordini illegali come un dovere, non come un’opzione.

La combinazione tra neo-guerra al narcotraffico nei Caraibi, ordini ambiguamente formulati o apertamente letali, uso del Pentagono come strumento di vendetta politica e retorica incendiaria sulla “sedizione” rischia di spostare l’ago della bilancia. Se passa l’idea che chi denuncia possibili abusi è un traditore, mentre chi ordina operazioni al limite della legalità è il vero patriota, il risultato è un rovesciamento dei ruoli.

La storia insegna che sono proprio questi momenti – in cui un potere politico cerca di usare l’esercito come arma contro gli avversari interni – a segnare le crepe più profonde nelle democrazie. Il fatto che a guidare questo processo sia un uomo che nel 2016 diceva che i militari “non seguiranno ordini illegali” e che oggi definisce “sedizioso” chi ripete quella frase, rende il quadro ancora più netto: il problema non è la legalità degli ordini, ma chi ha il diritto di dirlo. 

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