Su TikTok e Instagram lo chiamano Gen Z stare. Letteralmente: “lo sguardo della generazione Z”. È una tendenza che sta circolando con enorme velocità sui social, trasformata in meme, ripetuta e imitata. Ci sono video che raccolgono milioni di visualizzazioni: ragazzi e ragazze si filmano con espressioni neutre, facce quasi immobili, occhi fissi verso la camera come se non ci fosse nulla da dire o da mostrare.
Il “Gen Z stare”, la nuova tendenza social dello sguardo vuoto
A prima vista sembra noia, disinteresse, perfino indolenza. Molti adulti commentano con un misto di ironia e preoccupazione: “Non provano più emozioni”, “Non sanno comunicare”. Eppure, come spesso accade con i fenomeni virali, dietro un gesto che sembra banale si nasconde un significato più complesso, che dice qualcosa del modo in cui i più giovani interpretano e abitano il mondo.
Non un sorriso di circostanza
Per chi è cresciuto in altre generazioni, il volto è sempre stato un biglietto da visita. Ci hanno insegnato a sorridere nelle foto di classe, a mostrare entusiasmo durante gli incontri di lavoro, a piegare le espressioni secondo le regole della buona educazione. Anche quando non avevamo voglia, un sorriso di circostanza era la moneta con cui si pagava l’appartenenza: “mostrati gentile, sembri interessato, fai vedere che partecipi”. Il Gen Z stare rifiuta tutto questo. Non è disinteresse, è un gesto consapevole, quasi politico: lo sguardo neutro afferma che non c’è bisogno di compiacere sempre, che non serve recitare una parte. In questo silenzio del volto c’è una resistenza al dover apparire, una sottrazione dal teatro sociale che per anni ha imposto di mostrarsi più entusiasti, più vivi, più felici di quanto fossimo davvero.
Quando ti spiazza
La prima volta che l’ho notato davvero è stato durante un incontro in una scuola. Parlavo di libri, di storie, mi accaloravo come sempre. Davanti a me una ragazza mi fissava con quel volto immobile: niente sorriso, niente cenno d’assenso, nessuna smorfia. A un certo punto ho pensato: non mi sta ascoltando, si annoia, vorrebbe essere altrove. Alla fine dell’incontro però si è avvicinata e mi ha detto: “Mi è piaciuto molto, grazie”. Ho capito allora che il mio sguardo aveva frainteso il suo: non era indifferenza, era attenzione silenziosa. Quel volto neutro era la sua forma di presenza. Non aveva bisogno di “interpretare” per dimostrarmi che c’era. Forse siamo noi, abituati a leggere i segni come didascalie, a non sopportare un’espressione che non ci dica subito cosa provi. Ma per loro non serve: non devono farci sapere tutto.
Dallo schermo alla realtà
La cosa curiosa è che questi stessi ragazzi passano ore a fotografarsi, a costruire contenuti, a selezionare filtri e angolazioni. Sui social il volto si moltiplica, viene modificato, reso perfetto, filtrato all’infinito. Eppure, nella vita reale, quando li incontri per strada o in classe, lo sguardo che ricevi è l’opposto: fermo, opaco, apparentemente impenetrabile. Non è un paradosso, ma il rovescio della stessa logica. Se online tutto deve essere spettacolo, offline si sceglie la sottrazione. È come se dicessero: “Non sarò sempre in scena, non sarò sempre uno show”. Il Gen Z stare è un rifiuto della performance continua. E forse anche un antidoto all’ansia che il digitale produce: se nel mondo virtuale bisogna essere sempre perfetti, nel mondo reale si può restare immobili e basta.
Un linguaggio nuovo
Questo nuovo modo di guardare ci mette in difficoltà perché rompe il codice che conosciamo. Per noi, se non sorridi sei triste, se non annuisci sei distratto, se non reagisci sei escluso. Siamo cresciuti dentro un alfabeto espressivo rigido, che ha sempre tradotto il volto in segnale immediato. Il Gen Z stare scardina questo sistema: toglie la didascalia, lascia il testo nudo. E allora non sappiamo più leggere. Ci sembra silenzio, ma forse è un’altra lingua, che non ha bisogno di segni di punteggiatura continui. Un linguaggio che dice: “ci sono, ma non devo dimostrartelo”. In fondo, anche noi una volta lo praticavamo: stare zitti, guardare senza parlare, esserci senza dover sorridere. Abbiamo solo dimenticato come si fa.
Dal meme a un modo di stare al mondo
Quello che è nato come trend social, come un meme da replicare e condividere, racconta dunque qualcosa di più serio. Non è soltanto un gioco su TikTok: è la traduzione visiva di un rapporto diverso con la presenza e con l’aspettativa. È una ribellione silenziosa contro l’idea che dobbiamo sempre mostrare entusiasmo, interesse, partecipazione. Il Gen Z stare non chiede di essere imitato, ma di essere capito. Ci mostra che si può anche stare fermi, neutrali, senza recitare nulla, e che questo non significa non esserci. Significa esserci a modo proprio.
E allora la domanda che ci resta, guardandoli, è semplice: siamo in grado di restare anche noi in quello sguardo? Possiamo accettare di non ricevere sempre conferme immediate, di non pretendere segni costanti di approvazione? Forse sì, forse no. Ma vale la pena provare, per scoprire cosa succede quando togliamo le maschere e restiamo solo così: con gli occhi dritti negli occhi, senza trucco e senza applausi.