Gli italiani: “Missione legale, intervenga il governo”
La linea dura è già pronta. Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale israeliano e volto dell’ultradestra, ha presentato al governo un piano: bloccare la Global Sumud Flotilla, arrestare tutti gli attivisti e trasferirli nelle prigioni di Ketziot e Damon. Non sono carceri qualsiasi: sono le strutture usate per i detenuti palestinesi accusati di terrorismo.
Il piano di Ben-Gvir
Ben-Gvir non usa mezzi termini. Non parla di volontari né di missione civile. Per lui la flottiglia è “terrorismo”. Promette condizioni dure: niente televisione, niente radio, niente cibo speciale. “Non permetteremo a chi sostiene il terrorismo di vivere nell’agiatezza”, dice Ben-Gvir. Un messaggio pensato per il pubblico interno, ma che arriva dritto alle cancellerie occidentali.
Dal linguaggio alla strategia
La scelta delle parole anticipa la strategia di deterrenza: definire gli attivisti come “terroristi” per giustificare misure di massima sicurezza e un trattamento carcerario particolarmente duro. È una mossa che mira a scoraggiare future missioni e a rafforzare l’immagine di fermezza del governo israeliano.
La replica italiana
A bordo la risposta è immediata. “Non ci fermiamo. Non ci facciamo intimidire perché sappiamo di muoverci nella totale legalità”, afferma Maria Elena Delia, portavoce italiana della missione, che chiede al governo di Roma di intervenire a tutela dei connazionali. Per gli attivisti, l’azione non ha nulla di illecito: è un atto politico e pacifico, pensato per denunciare il blocco imposto a Gaza.
Sumud, la resistenza civile
Il nome della missione non è casuale. Sumud, in arabo, significa resistenza. Una resistenza senza armi, fatta di navigazione e testimonianza. Non è un viaggio che cambierà le sorti del conflitto, ma è pensato per essere visto, per attirare l’attenzione internazionale e costringere governi e opinione pubblica a guardare verso la Striscia.
Navi da 80 Paesi
Questa volta, però, la flottiglia ha un respiro globale. Dall’Europa al Sudamerica, dall’Asia al Nordafrica: partono navi da 80 Paesi. Non solo attivisti. A bordo ci sono esponenti del mondo del cinema, della cultura, della società civile internazionale. Una mobilitazione che va oltre la politica e prova a trasformare il viaggio in un evento mediatico planetario. È anche per questo che Israele alza i toni: fermare la flottiglia significa impedire che la protesta conquisti le prime pagine in tutto il mondo.
La narrazione israeliana
Dal punto di vista di Tel Aviv ogni missione di questo tipo è un’operazione di propaganda per Hamas. Da qui la scelta di etichettare i partecipanti come “terroristi” e di annunciare per loro un trattamento carcerario particolarmente duro. Un modo per lanciare un messaggio di dissuasione a chi oggi e in futuro penserà di unirsi alla flottiglia.
I precedenti in mare
La memoria corre al 2010 e alla Mavi Marmara, la nave turca che cercava di rompere il blocco su Gaza e fu abbordata dalle forze speciali israeliane. Nove attivisti morirono. Da allora ogni flottiglia è diventata terreno di scontro politico e mediatico. Israele invoca la sicurezza, gli attivisti rivendicano il diritto internazionale. La Global Sumud Flotilla si muove esattamente in questa tradizione di sfida.
L’Italia in bilico
Stavolta la vicenda coinvolge direttamente il nostro Paese. Ci sono cittadini italiani a bordo e la pressione sulla Farnesina cresce. Il governo Meloni deve decidere: garantire protezione ai connazionali senza incrinare i rapporti con Tel Aviv. Un equilibrio difficile, in un Mediterraneo già instabile. Ogni scelta rischia di avere un prezzo politico.
Il rischio diplomatico
Difendere con forza la legalità della missione può aprire un fronte con Israele. Restare in silenzio significherebbe abbandonare cittadini italiani al rischio di carcere duro. Per questo il caso rischia di diventare rapidamente un dossier diplomatico, destinato a coinvolgere anche l’Unione europea.
Il mare come teatro
In mezzo al Mediterraneo viaggia una barca che è molto più di una barca. È un simbolo. Da una parte un ministro che parla di terrorismo e promette celle di massima sicurezza. Dall’altra una rete internazionale che rivendica il diritto di navigare. Nel mezzo governi chiamati a scegliere se intervenire o restare spettatori.
Un conflitto di immagini
La Global Sumud Flotilla porta con sé più immagini che aiuti concreti: le bandiere sul ponte, le dichiarazioni di sfida, le telecamere al seguito. Israele vuole mostrare fermezza. Gli attivisti vogliono costringere il mondo a guardare. È una battaglia narrativa che viaggia per mare, con il Mediterraneo trasformato in palcoscenico.
Una partita aperta
Il viaggio continua, ma lo scontro è già cominciato. Ben-Gvir ha scelto la linea dura, gli attivisti la resistenza civile. Con decine di navi da 80 Paesi e personalità della cultura internazionale a bordo, la Global Sumud Flotilla è già diventata un caso politico. E l’Italia, con cittadini coinvolti, non potrà restare a lungo alla finestra.