È un’immagine potente: nel Giubileo dei poveri 2025, centinaia di persone in difficoltà sedute a tavola insieme con Leone XIV. Tra gli invitati c’è anche un gruppo di persone transgender, circa cinquanta. L’episodio ha riacceso il dibattito su quanto la Chiesa sia davvero pronta a includere chi vive ai margini, dentro e fuori le sue comunità.
Il pranzo che apre uno spazio
L’evento nell’Aula Paolo VI, con oltre 1.300 ospiti, non è stato un gesto occasionale ma un segnale chiaro. La presenza di un gruppo consistente di donne trans al tavolo papale è apparsa come una scelta precisa: mostrare che l’attenzione verso la fragilità non deve escludere nessuno.
Il clima è stato descritto come sobrio, accogliente, con volontari e operatori che servivano i tavoli senza distinzioni. In quel contesto, le persone trans non erano “ospiti speciali”, ma parte del tutto: un messaggio forte di riconoscimento.
La voce di una donna trans: “Ho trovato un altro padre...”
Tra le presenti c’era Marcella De Marco, 52 anni, uruguaiana, da anni residente sul litorale romano. Raccontando la sua esperienza, ha detto: “Quando ho ricevuto l’invito […] ho pensato: ‘Ma davvero ci vogliono ancora qui, dopo tutto questo tempo?’”.
Marcella ha aggiunto parole che hanno colpito molte persone: “Ho trovato un altro padre dopo Francesco”. Nel suo racconto emerge la sorpresa di sentirsi non tollerata, ma accolta. E anche la nostalgia per un rapporto di vicinanza nato negli anni precedenti con il pontefice emerito.
Perché questo gesto conta
Il pranzo non risolve problemi strutturali, ma offre una fotografia simbolica di ciò che potrebbe essere una Chiesa realmente inclusiva: una comunità in cui la marginalità non è oggetto di discussione teorica ma presenza viva.
Le donne trans che hanno partecipato portano con sé storie di precarietà sociale, affettiva ed economica: difficoltà abitative, lavori informali, isolamento. La possibilità di sedere alla stessa tavola del Papa genera un messaggio di dignità che va oltre la cronaca del giorno.
Le sfide ancora sul tavolo
Non basta una giornata per cambiare la percezione e la vita delle persone transgender. Le sfide restano immense: discriminazioni, solitudine, percorsi legali complessi, mancanza di reti. E resta aperto il nodo più delicato: come articolare una pastorale cattolica capace di accompagnare davvero chi vive una transizione o un percorso identitario complesso.
Le domande sono molte: come accogliere spiritualmente queste persone? Quali spazi offrire? Come formare sacerdoti e comunità perché non si limitino al gesto simbolico, ma pratichino una vera prossimità?
Un cammino pastorale in divenire
Negli ultimi anni alcune parrocchie hanno avviato esperienze di accompagnamento: gruppi di ascolto, sostegno pratico, relazioni continuative. Sono segnali locali di un cambiamento culturale che però deve ancora consolidarsi a livello più ampio.
Il gesto del Papa, pur nella sua semplicità, si colloca dentro questa traiettoria. Non è un punto d’arrivo, ma una tappa: un invito a non lasciare sole le persone trans e chi vive ogni forma di fragilità.
La Chiesa che guarda ai margini
Quando la Chiesa sceglie di guardare ai margini, mette in discussione le proprie certezze. L’inclusione non è una strategia comunicativa: è un modo di stare nel mondo. Se davvero vuole essere “ospedale da campo”, come spesso viene ricordato, deve imparare a curare anche ferite che non conosce ancora bene.
La presenza delle persone trans al pranzo del Giubileo è un segno visibile di questa direzione: una Chiesa che non si limita a parlare “dei poveri”, ma si siede insieme a loro.
Verso una inclusione radicata
Per trasformare il gesto in percorso servono tempo, continuità e ascolto. Le comunità dovranno imparare ad accogliere storie che non rientrano nei modelli tradizionali. I pastori dovranno formarsi per accompagnare situazioni delicate senza giudizio.
Marcella ha sintetizzato tutto con parole semplici: “La Chiesa tenga le porte aperte anche per noi”. In quel “anche” c’è il peso di una vita vissuta ai margini e la speranza di non tornarci.