Performance Art, breve ritratto in ricordo di Ulay

- di: Stefania Assogna
 
"E' con grande tristezza che ho saputo della morte del mio amico ed ex partner Ulay. Era un artista e un essere umano eccezionale, ci mancherà profondamente. In questo giorno è confortante sapere che la sua arte e la sua eredità vivranno per sempre”. Marina Abramovic, in un post su Facebook, ha espresso così il suo cordoglio, per la scomparsa dell’artista e fotografo tedesco Ulay, per un certo tempo suo compagno di vita. Frank Uwe Laysiepen in arte Ulay, nato nel 1943, scomparso il 2 marzo scorso per un tumore è stato un artista performer, accademico tedesco e fotografo e una delle figure chiave della performance art degli anni ’70.
Marina Abramovic´ come performer inizia la sua attività negli anni ‘60, e per il lungo percorso di ricerca e di espressione si definisce “la nonna della Performance Art”. La sua opera è da considerare un vero e proprio canone del performativo. Nella mostra-spettacolo The Artist is Present, del 2010 il suo lavoro trova la sintesi di tutte le sue ricerche, fondando l’elemento della spettacolarizzazione dell’evento allo svolgersi dell’azione per arrivare all’apice con “Metodo Abramovic´” (2012), che vede la pop star Lady Gaga tra i principali sostenitori. Come descrive Sonia D’Alto su Artibrune:”(…) La tecnica della Abramovic´ si fonda sulla ritualità, mai sull’improvvisazione. Mettere in atto, fondare o restituire ritualità sono costanti del suo lavoro, poiché queste sono, secondo l’artista, le uniche modalità che ci permettono di abbattere quella scissione dualistica propria della cultura occidentale, che separa corpo e mente, uomo e natura. L’uso della simbologia dei colori tibetani, degli oggetti primitivi o delle tradizioni indigene restituiscono nella forma, ciò che nella teoria è dato dal parallelo sviluppo degli studi post-colonialisti”. (Artribune n.40) Abramovic´ e Ulay realizzano in particolare: Imponderabilia (1977), in cui si trovano nudi in una porta, costringendo chi entra a passare tra loro i loro corpi; Breathing In / Breathing Out (1977), in cui inspirano ed espirano dalle bocche dell’altro fino alla quasi totale mancanza di fiato; Relation in Time (1977), schiena contro schiena con i capelli legati insieme; Light / Dark (1977), in cui alternavano a vicenda i loro volti; e Nightsea Crossing (1981-1987), una performance in cui siedono in silenzio l’uno di fronte all’altra su un tavolo di legno il più a lungo possibile. Quando decidono di concludere la loro collaborazione artistica e le loro relazioni personali nel 1988, danno vita a The Lovers: ognuno inizia da una parte diversa a percorrere la Grande Muraglia cinese fin quando non si incontrano nel mezzo. Ma chi è esattamente un Performer? L’artista performer, di regola attua la sua azione coinvolgendo generalmente uno o più dei quattro elementi base: tempo, spazio, il suo corpo e il pubblico. La performance d’artista può essere fatta in qualsiasi luogo e senza limiti di durata e si concreta nell’azione di un individuo, solo o in un gruppo, svolta in un particolare luogo e in un particolare lasso temporale, che nel suo insieme costituisce l’opera stessa. Pionieri e precursori di questa espressione furono i Dadaisti con le loro esibizioni non convenzionali di poesia, tenute spesso al Cabaret Voltaire di Zurigo da Richard Huelsenbeck, Tristan Tzara o le intuizioni concettuali di Marchel Duchamp. Body art, Fluxus, Poesia D’Azione e Intermedia sono alcune delle diverse applicazioni della Performance Art. Alle quali ci sentiamo di includere anche il Flashmob per la forza del messaggio che unisce grandi porzioni di umanità concentrate nell’esprimere lo stesso sentimento nello stesso momento. Un personaggio, controverso, fatto rientrare in qualche modo nella categoria dell’artista Performer che spesso fa parlare di sè è l’austriaco Hermann Nitsch, processato varie volte e condannato a ben tre pene detentive. Nitsch cerca di insinuarsi nel subconscio del singolo colpendolo con immagini di animali sanguinanti e sacrificati in croce. Questi gesti portano il singolo ad entrare in contatto con il proprio essere animale più profondo e istintivo, e quindi a toccare gli ambiti più bui e nascosti del proprio essere, che sono normalmente repressi dalla società umana, prenderne coscienza e rifiutare così l’innata potenzialità e tendenza tipicamente umane alla violenza e alla distruzione, elevando il proprio ego alla spiritualità. Inutile descrivere come gli animalisti (secondo noi giustamente) contestino “il metodo catartico” di Herman Nitsch, boicottando e raccogliendo firme per non permettere lo svolgersi delle sue cruente “mostre”. Tutto un altro stile espressivo, decisamente più poetico è quello inventato dal Performer francese Yves Klein (1928-1962) precursore della Body Art e incanalato poi nel Nouvelle Realisme. Yves Klein è noto per aver usato come un pennello vivente il suo stesso corpo immergendolo nel colore. Con la tecnica dei pannelli viventi Klein realizzò le Antropometrie, stendendo sulla tela delle “tracce di vita” grazie al corpo di alcune modelle nude. Il suo modo artistico è legato poi al celebre tono di blu, con la creazione nel 1956 di un tono oltremare intenso e ipnotico, brevettato come International Klein Blue (IKB). Con questo tono di blu, esaltato dall’utilizzo del fissativo Rhodopas, Klein ha materializzato lo spazio infinito, in cui viene contenuto tutto: il punto di unione tra terra e cielo, il razionale e l’irrazionale, l’immateriale, in un unico colore esclusivo unico senza altri limiti, fluido, senza punti o linee, si concreta e sintetizza l’arte di Klein, che lascia ipnotizzati a guardare l’effetto tridimensionale di questo blu profondo che sembra catturarci, portandoci dentro la tela. Insomma, come disse Lucio Fontana: “Le idee non si rifiutano, germinano nella società, poi pensatori e artisti le esprimono”. A questo possiamo aggiungere che taluni riescono, con la loro arte a conquistare un pezzetto di eternità.
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