Ferzan Özpetek e il suo "Diamanti": un caleidoscopio di vite e segreti
- di: Cristina Volpe Rinonapoli
C’è una magia tutta particolare nel cinema di Ferzan Özpetek, una sorta di incantesimo che ti avvolge lentamente, come un tessuto prezioso intrecciato di storie, silenzi e verità nascoste. "Diamanti", uscito nelle sale lo scorso fine settimana, è un film che brilla di mille sfaccettature, proprio come il titolo suggerisce, ma che, come ogni diamante, racchiude anche imperfezioni e incrinature.
Ferzan Özpetek e il suo "Diamanti": un caleidoscopio di vite e segreti
La storia si muove tra le mura di una storica sartoria romana, un luogo che custodisce l’anima di generazioni di donne che hanno intrecciato sogni e delusioni tra un filo e l’altro. Le sorelle Anna e Carla (interpretate rispettivamente da Luisa Ranieri e Jasmine Trinca) sono le eredi di questo spazio sacro, ma la loro relazione è segnata da non detti, rancori e un segreto che aleggia come un velo di tulle su un abito mai finito.
Attorno a loro ruotano figure femminili di straordinaria intensità: l’eccentrica zia Maria (Mara Venier in una prova sorprendente), la dolce e malinconica Teresa (Elena Sofia Ricci) e la giovane sarta Sara (Kasia Smutniak), che sembra portare con sé la freschezza di un inizio e il peso di un passato ingombrante.
L’amore come presenza e assenza
Uno dei fili conduttori più potenti è l’amore, raccontato nelle sue infinite sfumature: l’amore familiare, che può essere un rifugio ma anche una prigione; l’amore perduto, che si insinua nei ricordi come una melodia mai conclusa; e l’amore per se stessi, il più difficile da coltivare. Özpetek ritorna ai suoi temi cari: la fragilità umana, la potenza delle emozioni e quel bisogno universale di appartenere, che sia a una famiglia, a un luogo o a qualcuno.
I loghi di Özpetek: le tavole, le finestre, le case
"Diamanti" è intriso di quei simboli visivi che il regista ama riproporre, come se ogni film fosse un tassello di un universo più grande. Le tavole imbandite, dove cibo e conversazioni si intrecciano come in una danza; le finestre, da cui si spia o si sogna una vita diversa; le case, mai semplici edifici ma contenitori di memoria, dolore e speranza. Anche in questo film, la casa della sartoria è un luogo di rifugio e di rivelazione, dove il passato si mescola al presente e ogni stanza ha una storia da raccontare.
Un cast corale, una danza di emozioni
Il cast, quasi interamente al femminile, è il cuore pulsante del film. Özpetek riesce, come pochi, a dare spazio a ogni personaggio, creando un coro di voci che si sovrappongono, si scontrano e, infine, trovano un’armonia dolente. Milena Vukotic e Paola Minaccioni offrono momenti di grande intensità, mentre Lunetta Savino è la voce della saggezza pratica che spesso manca nelle vite complicate delle protagoniste.
La Roma di Özpetek: una città che abbraccia e osserva
Roma, con la sua bellezza sfrontata e il suo eterno contrasto tra decadenza e splendore, è molto più di uno sfondo. È un personaggio silenzioso, che accoglie i segreti delle protagoniste e li riflette nei suoi vicoli, nelle sue piazze vuote all’alba, nei suoi cieli d’inverno.
La musica: un racconto nel racconto
La colonna sonora, firmata da Giuliano Taviani e Carmelo Travia, non è mai solo un accompagnamento, ma un vero e proprio racconto parallelo. Le note evocative seguono i personaggi nei loro momenti più intimi, amplificando le emozioni e creando un legame invisibile tra chi guarda e chi vive sullo schermo.
E poi arriva quella scena finale. Un gesto, una luce che si spegne e una verità che emerge con la forza di un urlo trattenuto troppo a lungo.