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Istruzione alta, salario basso: il paradosso del mismatch che paralizza il lavoro in Italia

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Istruzione alta, salario basso: il paradosso del mismatch che paralizza il lavoro in Italia

Tra il 2011 e il 2022 il livello medio di istruzione dei lavoratori italiani è cresciuto in modo significativo, ma questa crescita non ha trovato riscontro in una trasformazione del sistema produttivo capace di assorbire e valorizzare le competenze acquisite. È il cuore del nuovo monitor di Area Studi Legacoop, realizzato in collaborazione con Prometeia, che affronta il tema del mismatch di qualifiche nel mercato del lavoro italiano.

Istruzione alta, salario basso: il paradosso del mismatch che paralizza il lavoro in Italia

I numeri mostrano un disallineamento strutturale tra le richieste del sistema produttivo e il capitale umano disponibile, con effetti distorsivi sui salari e sulle prospettive dei giovani, in particolare delle donne. Il rischio, sempre più concreto, è quello di un mercato in cui studiare non paga e in cui il talento trova barriere invisibili al proprio riconoscimento. “Un mismatch che mina la competitività, produce frustrazione sociale e rischia di scoraggiare le nuove generazioni”, ha dichiarato Simone Gamberini, presidente di Legacoop.

Cresce l’istruzione, ma non l’adeguamento del lavoro

Nel 2022 un lavoratore italiano aveva in media 12,6 anni di istruzione, contro gli 11,3 del 2011. Un incremento di oltre un anno, marcato soprattutto nella fascia 35-44 anni, che ha raggiunto i livelli dei più giovani. Ma la domanda di lavoro non ha seguito la stessa traiettoria: mentre l’offerta si è elevata in termini di qualifiche, le imprese continuano a richiedere titoli e competenze inferiori. Il risultato è un mercato in cui i sovraqualificati sono passati dal 7,8% al 12,7% in dieci anni, mentre i sottoqualificati sono scesi dall’11,3% all’8,1%. Un’inversione che fotografa una realtà paradossale: il surplus formativo diventa un problema, invece che una risorsa. Il gap tra gli anni di studio richiesti per un determinato ruolo e quelli effettivamente conseguiti dai lavoratori ha generato, nel 2022, un eccesso medio di 0,8 anni di istruzione, dove prima regnava un sostanziale equilibrio.

Salari compressi e talenti frustrati

Lo squilibrio non è solo un fatto statistico: ha ricadute pesanti sui salari e sulla tenuta sociale. In particolare nel settore industriale (manifattura, estrattive, energia e acqua), ogni anno di studio che eccede il livello richiesto viene retribuito solo al 67% del suo valore, mentre ogni anno mancante si traduce in una perdita netta, con un rendimento marginale negativo fino al 50%. In altre parole, l’istruzione in eccesso viene sottovalutata, quella in difetto punita. Il risultato è una compressione salariale che penalizza i più giovani e alimenta una spirale di disillusione. Secondo Gamberini, “non si costruisce nulla sulla delusione e le speranze tradite”, e senza un cambio di rotta l’Italia rischia di spegnere l’ambizione delle nuove generazioni.

Donne e giovani, la doppia trappola

Nel 2022, la quota di giovani sovraqualificati tra i 25-29 anni superava di oltre 7 punti percentuali quella dei lavoratori tra i 60 e i 65 anni. È una fotografia amara di un sistema che chiede agli studenti di fare di più, ma non offre poi le condizioni per valorizzarne gli sforzi. A questa penalizzazione generazionale si somma quella di genere. Anche a parità di qualifiche, le donne guadagnano meno degli uomini: nel settore industriale, il divario retributivo è del 12% con competenze allineate, del 23% in caso di sovraqualificazione e del 20% se sottoqualificate. La doppia trappola del mismatch e della disuguaglianza salariale incide su intere carriere e rafforza le barriere strutturali che ancora oggi ostacolano la piena partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Serve una risposta strutturale

Per invertire la rotta, Legacoop chiede un investimento solido nelle politiche attive del lavoro. Non si tratta solo di creare posti, ma di creare percorsi: orientamento formativo coerente con i bisogni produttivi, valorizzazione delle competenze, maggiore equità retributiva. “Le famigerate e mai davvero realizzate politiche attive del lavoro – ha sottolineato Gamberini – rappresentano sempre più uno degli aspetti cruciali delle politiche industriali”. In questo quadro, le cooperative si candidano a essere protagoniste di un modello di sviluppo alternativo, più giusto, moderno e inclusivo. Un modello che non spreca il capitale umano e che non lascia indietro chi ha studiato per migliorare la propria condizione.

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