A Gaza il Natale arriva senza luci e senza rumore di campane. Arriva, piuttosto, nel silenzio che segue un’esplosione lontana, in quelle pause incerte che la popolazione ha imparato a non scambiare mai per pace. «Non ci saranno feste esterne, perché il conflitto continua, ma celebrazioni liturgiche, momenti di preghiera e piccoli segni di gioia sì», racconta padre Gabriel Romanelli, parroco dell’unica chiesa cattolica di Gaza City. È un Natale ridotto all’essenziale, adattato a un contesto che non consente altro.
Natale a Gaza, cronaca di una tregua che non è pace
Il vocabolario è misurato, quasi prudente. Nessuna enfasi, nessuna concessione alla retorica. A Gaza anche le parole devono stare attente a non promettere troppo. Un albero di Natale, un presepe, persino un presepe vivente: gesti minimi, tenuti dentro spazi chiusi, lontani dalla strada. Non per scelta simbolica, ma per necessità.
Il fronte interno delle chiese
La parrocchia è diventata molto più di un luogo di culto. È rifugio, dormitorio, punto di distribuzione, spazio di ascolto. Il teatrino dove un tempo si metteva in scena la Natività oggi ospita chi ha perso la casa. Non è un’immagine evocativa, è un dato concreto. Dove prima si provava uno spettacolo, ora si dorme. Dove c’erano le quinte, ora ci sono materassi e sacchi.
La chiesa non è al riparo dalla guerra, ma cerca di tenere insieme una comunità che rischia di sfilacciarsi sotto il peso dei mesi di conflitto. Qui il Natale non è celebrazione, è continuità: continuare a riunirsi, continuare a pregare, continuare a riconoscersi come gruppo umano prima ancora che religioso.
La tregua come tempo sospeso
«La situazione è migliorata dall’inizio della tregua», spiega padre Romanelli. Migliorata, però, è una parola che va maneggiata con cautela. I grandi bombardamenti che per mesi hanno scandito le giornate non ci sono più, ma le esplosioni si sentono ancora, ogni giorno. La tregua ha cambiato il ritmo della guerra, non la sua presenza.
Gaza vive in una dimensione intermedia: non è emergenza totale, ma nemmeno normalità. Le persone escono di casa, ma senza abbassare la guardia. I bambini giocano, ma restano vicino agli adulti. Le celebrazioni religiose si svolgono in forma sobria, senza assembramenti, senza segnali che possano sembrare una sfida al contesto.
La normalità che non torna
La guerra, anche quando rallenta, lascia dietro di sé una traccia profonda. Le infrastrutture restano fragili, l’economia è al minimo, i servizi essenziali funzionano a intermittenza. In questo quadro, il Natale non è una parentesi, ma si inserisce nella stessa logica di adattamento quotidiano che governa la vita nella Striscia.
Tenere un presepe, celebrare una messa, condividere un momento di preghiera non serve a dimenticare la guerra. Serve, piuttosto, a evitare che la guerra diventi l’unico orizzonte possibile. È una forma di resistenza silenziosa, priva di slogan.
Il rischio dell’assuefazione
Il racconto che arriva da Gaza, diffuso anche attraverso le iniziative delle chiese toscane, mette in luce un rischio che va oltre i confini della Striscia: l’assuefazione. Quando un conflitto dura troppo a lungo, smette di fare notizia e diventa sfondo. La sofferenza continua, ma perde visibilità.
«Non possiamo abituarci a pensare che sia normale che lì ci sia la guerra», è il messaggio che arriva dalla Chiesa italiana. Un richiamo che non riguarda solo Gaza, ma il modo in cui l’opinione pubblica occidentale metabolizza i conflitti lontani, trasformandoli in rumore di fondo.
Un Natale senza illusioni
A Gaza non c’è spazio per i miracoli improvvisi. Nessuno parla di svolte imminenti o di soluzioni rapide. Il Natale, quest’anno, non promette pace, ma offre presenza. Non annuncia cambiamenti storici, ma difende frammenti di umanità.
In una Striscia dove tutto è provvisorio, anche la tregua, i piccoli segni di gioia non hanno la funzione di consolare. Hanno quella, più concreta, di ricordare che la vita continua anche sotto pressione. E che, finché qualcuno accende una luce, per quanto debole, la guerra non ha ancora vinto del tutto.