Simone Bemporad: "L'eco delle fake news il grande nemico del nostro tempo"
- di: Redazione
Le nuove frontiere della comunicazione, le opportunità, ma anche le trappole di un ecosistema informativo che presenta seri
rischi. E cosa significa essere al tempo stesso responsabile della comunicazione e degli affari istituzionali. Ne parliamo con Simone
Bemporad, Group Director of Communications and Public Affairs
di Generali.
Il moltiplicarsi esponenziale (e incontrollato) delle fonti,
aiutato da una Rete che non ha dei regolatori degni di tale
nome e che si affida agli algoritmi, fa sì che le notizie false
e quelle fondate si mescolino. Lei ha affermato in un’intervista che il tema delle fake news, ossia la manipolazione, è
centrale nell’informazione moderna.
I problemi che oggi riscontro nell’informazione sono principalmente due: uno è il tema legato alle fake news e l’altro è l’eccesso
di informazione. Il più delle volte questi due aspetti sono collegati
fra loro e diventano preoccupanti quando i cosiddetti “mainstream media”, cioè la stampa matura e affidabile che dovrebbe contrastare il fenomeno delle fake news che prosperano sulla rete,
le amplificano. ‘Diventa virale sui social’ è uno di quei titoli che si
leggono sempre più frequentemente sui siti delle testate giornalistiche. Sogno un mondo in cui i giornali non si preoccupino più di
informare i propri lettori di cosa è virale sui social. Accanto al fenomeno delle notizie inventate, c’è poi quello delle notizie che di
per sé non rappresentano fake news, ma non sono nemmeno così
rilevanti da generare un’ampia comunicazione. Pensate al diluvio
di informazione sul Covid: davvero tutto meritava prime pagine,
dibattiti televisivi e il bombardamento dell’opinione pubblica?
Penso che la manipolazione non si subisca ma, piuttosto, si autoinfligga. Questo è senz’altro vero sulle dinamiche commerciali, più
complesso è il tema della politica. Qui, le fake news rappresentano una sorta di veleno che, a piccole dosi, viene iniettato all’interno dell’informazione stessa e dal quale nascono poi reazioni
estreme. L’assalto al Congresso USA ne è l’esempio più eclatante.
Oggi, rispetto al passato, la capacità della rete di raggiungere
tantissime persone in pochissimo tempo è praticamente illimitata.
L’antidoto a tutto questo veleno è senz’altro la difesa dei valori
e delle istituzioni sulle quali è basata la nostra società, come la
scuola, la famiglia, la democrazia liberale e capitalista. Un’assunzione di responsabilità forte da parte dei media nazionali per non
fare da cassa di risonanza ai social contribuirebbe alla difesa del
sistema. Quanto al tema della censura, su chi possa decidere se
una notizia sia falsa o meno, la libertà di parola è un bene supremo, banale sottolinearlo. Detto questo, la chiusura degli account Twitter e Facebook di Donald Trump non ha compromesso
la libertà di parola e di informazione negli Stati Uniti d’America,
anzi. Non voglio in alcun modo suggerire che l’unica soluzione
siano misure così drastiche nei confronti degli account social di
personaggi più o meno noti, ma evidentemente la regolazione
della rete ha degli spazi di manovra che vanno esplorati per poi
poter stabilire regole serie in materia.
L’ingresso dei social nelle dinamiche quotidiane ha stravolto il panorama dell’editoria. Tanto che resta sempre attuale il tema di capire chi alla fine prevarrà nella formazione del giudizio da parte degli utenti, se i social o i media
tradizionali. Ma alla fine, per dirla come in Highlander, ne
resterà solo uno o possono convivere?
Oggi i canali social rappresentano dei moltiplicatori di notizie
create e prodotte da altri canali, che possono essere gestiti da
singoli individui, gruppi di persone o media tradizionali. Alla fine
non credo che rimarrà in piedi solo uno tra i due sistemi: i media
tradizionali e le grandi testate editoriali, ovvero quelle realtà che
possono avvalersi di persone competenti e collaboratori esperti,
hanno il dovere morale di vincere questa battaglia, non eliminando i social ma, come dicevamo prima, smettendo di fare da loro
cassa di risonanza, di fatto invitando i propri lettori a leggere fake
news. I media hanno il compito di comunicare la notizia e di contribuire a un dibattito onesto sulle idee, e non quello di rincorrere
i like e le condivisioni sui social. I media devono essere portatori di
valore e di competenza, equilibrio e sobrietà, caratteristiche che
purtroppo il più delle volte non troviamo sulla rete. Detto questo, non dimentichiamoci che la rete può anche essere un veicolo
utilizzato per contrastare, con la stessa potenza di fuoco, le fake
news. Ricordiamoci che “quando si stava meglio” bastava influenzare un canale televisivo e una testata e il gioco era fatto. Oggi c’è più libertà, per fortuna. Ma, come abbiamo visto, anche più
rischi. Per questo la regolamentazione sta cominciando ad avere
un ruolo centrale e le istituzioni giustamente hanno cominciato
a lavorarci.
Per definizione il comunicatore ha una platea virtuale molto ampia affinché il suo messaggio raggiunga quanti più
soggetti sensibili; chi cura le relazioni istituzionali ha interlocutori selezionati, in un rapporto quasi personale determinato anche dalla percezione di chi sta di fronte. Quanto
è difficile, se lo è, agire su piani così diversi della comunicazione? Viaggiano separati oppure sono intercomunicabili o addirittura, talvolta, in conflitto?
Il comunicatore e il lobbista svolgono due lavori non uguali, ma
nemmeno troppo diversi fra loro: hanno, ovvero, modalità diverse ma non viaggiano separati. Nella seconda metà degli anni ‘80,
quando ho cominciato a lavorare, eravamo alla fine di un’epoca
nella quale non esistevano i cellulari, non c’era internet e l’informazione veniva dominata da due grandi tv e da poche testate
editoriali influenti. In un contesto simile, coloro che si trovavano
a lavorare nell’ambito delle relazioni istituzionali avevano una
leva molto forte in quanto rappresentavano una fonte di informazione privilegiata. Oggi, invece, abbiamo innumerevoli fonti e
categorie di informazione, molte delle quali accurate, altre molto
meno. Quando io personalmente mi occupo di rapporti istituzionali, quindi, ho davanti a me un interlocutore che è molto più informato di quanto non lo potesse essere qualche anno addietro:
un interlocutore che ha già numerosi elementi di informazione
– veri o falsi – sul tema che voglio rappresentare. Quindi è fondamentale che in questo coro di voci permanente vi sia, possibilmente forte e chiaro, anche quello della mia organizzazione.
Quindi, il fatto che comunicazione e rapporti istituzionali stiano
insieme, è un vantaggio nel poter definire una strategia integrata
in cui tempi e modalità di ciò che si comunica tengano conto di
tutti gli stakeholder.
Il suo curriculum si commenta da solo. I suoi incarichi
l’hanno portata a lavorare, giovanissimo, per anni negli
Stati Uniti ed ora, da direttore della comunicazione e delle
relazioni istituzionali di Generali, ha interlocutori in ogni
parte del pianeta. Una domanda che può apparire scontata, ma che crediamo possa essere interessante per chi
aspira a seguire le sue orme: quanto diverso è il profilo
del comunicatore in Italia rispetto a quello di chi opera in
altri Paesi?
Oltre all’esperienza negli Stati Uniti ho lavorato in alcuni grandi
Gruppi internazionali: Finmeccanica, Enel e certamente Generali,
il più grande ed importante gruppo italiano come diffusione di
presenza internazionale e per clienti retail. Nel mio team ho una
serie di comunicatori anche al di fuori dell’Italia, come in Germania, Francia, Est Europa, Asia e Sud America. Lavorando in più
Stati e parlando con professionisti di diversi paesi ho capito che
abbiamo dei tratti comuni e molto simili dal punto di vista di soft
skill e skill professionali.
Il comunicatore, infatti, indipendentemente dalla nazionalità,
possiede dei tratti caratteristici, quali saper semplificare e prioritizzare, avere una forte capacità di sintesi, un carattere empatico
e un network relazionale vivo. Non vedo grandi differenze tra i
comunicatori dei diversi Paesi e per questo si lavora bene. La situazione cambia totalmente se si parla nel dettaglio di conoscenza del mercato e della cultura di un singolo Stato. Un bravissimo
comunicatore italiano non è detto che riesca ad avere successo
in Francia o viceversa, a differenza per esempio di un ruolo nella
finanza o nelle operations. Per avere successo anche all’estero è
fondamentale, oltre alla conoscenza della lingua, possedere anche un bagaglio culturale di vita e di conoscenze personali, aspetti che possono essere maturati solo grazie al tempo.
“In questi anni negli Stati Uniti ho capito quanto sia essenziale per le aziende italiane ed europee poter contare su un
punto di riferimento che possa fare da ponte tra due culture di business così diverse”: è una sua dichiarazione che
risale al 2013 (quando stava per entrare, con un incarico
di prestigio, nel Csis, Center for Strategic and International Studies, uno dei più importanti think tank americani).
Il 2013, quasi un’era fa, quando l’America viveva la presidenza Obama e l’Europa era molto più vicina di quanto lo
sarebbe stata con l’Amministrazione Trump. È ancora dello
stesso avviso o quel ponte cui lei faceva riferimento è da
ricostruire?
Come dicevamo, è complicato saper esportare la propria professionalità nel campo della comunicazione o dei rapporti istituzionali. La prospettiva cambia completamente se si parla di un’organizzazione basata in un Paese e che si stabilisce in un altro da
zero, oppure con una strategia completamente nuova. Qui mi
viene in mente l’esempio di una delle migliori infrastrutture oggi
presenti in Italia, la nostra rete diplomatica. Il Ministero degli Affari Esteri, infatti, è una delle migliori istituzioni in Italia, e riconosciuto a livello mondiale. Molti nostri ambasciatori sono fattori
insostituibili nella difesa dell’interesse nazionale. La presenza di
personalità di questo livello aiuta a creare quel ponte di cui parlavo nel 2013. Le aziende devono arruolare o formare personalità
simili al loro interno, con un’impronta molto di business e non
solo relazionale. Diventerebbero un punto di riferimento per gli
stakeholder che all’estero interagiscono con la casa madre italiana, e rappresenterebbero un solido punto di riferimento per la
casa madre stessa. Quanto al legame tra Italia e Stati Uniti, è indissolubile, un’affinità straordinaria anche dal punto di vista storico
e politico. È chiaro che, in un mondo dove i cambiamenti sono
sempre più veloci, il quadro dei rapporti e degli scenari possono
cambiare. Peggiorare non è automatico, ma mutare sicuramente,
a causa anche della presenza di altri interlocutori sullo scacchiere
geopolitico, con conseguenze serie sulla qualità di questa storica
amicizia. Insomma, non abbasserei la guardia.
Una delle doti che si richiedono al comunicatore di oggi
è sapere costruire, padroneggiare, in funzione di obiettivi
prestabiliti, lo storytelling. Ma quanto è veramente importante il “racconto” in termini di efficacia comunicativa?
L’eccesso di informazione è e resta un problema della società in
cui viviamo. Se identifichiamo lo storytelling come il saper declinare il messaggio che l’azienda vuole lanciare, certamente diventa uno strumento di fondamentale importanza. A mio avviso, ciò
che conta davvero non è la quantità e nemmeno lo scimmiottare altri mezzi di comunicazione. Qualche anno fa si era diffusa l’idea
che le aziende fossero dei gruppi editoriali che dovevano produrre contenuti, ma il tema centrale è un altro: quali sono i messaggi
funzionali alla realizzazione di un piano strategico e quali sono le
attività funzionali che possano permettere all’azienda di raggiungere i risultati prefissati? Si deve partire da queste due domande
e, in base alle risorse a disposizione, si pianifica una strategia di
comunicazione coerente nei messaggi, si cerca di capire cosa dire
e come dirlo e poi si ingaggiano i differenti stakeholder.
Avere un incarico come il suo, che non ha confini territoriali e quindi anche di orario, impone una grande attenzione.
Ma quando smette di analizzare dichiarazioni, statistiche,
diagrammi, che cosa legge volentieri?
La verità è che, come molti di noi, non sono sicuro di staccare mai
veramente. In particolare mi piace leggere saggi che riguardano
l’economia e il mercato, temi che, paradossalmente, non dovrebbero essere rilassanti ma che a me interessano molto. Ultimamente ho letto tre bei libri sul tema: Radical Markets di Eric Posner,
Investire in Conoscenza di Ignazio Visco e La società signorile di
massa di Luca Ricolfi. Mi piacciono molto anche gli aspetti della
psicologia nel mondo del business, legati all’evoluzione della figura del management: per esempio, seguo molto gli studi di Arthur Brooks, che insegna leadership alla Harvard Business School.
Sono terrorizzato dalle serie tv, che adoro, ma quando inizio a
vedere una puntata c’è il rischio di restare davanti alla televisione
per tutta la notte. Sono delle bellissime trappole. Tra le letture
da tempo libero, mi appassiona moltissimo il vino e la storia dei
produttori di vini: sono storie di grande spirito imprenditoriale, di
passione e di forza di volontà.