Chi vince e chi perde nella tempesta imperfetta dell'auto

- di: Gianluca Di Loreto - Partner e responsabile italiano practice Automotive & Mobility, Bain & Company
 
La geografia dell’auto è cambiata: oggi il mappamondo comincia da Est
Secoli fa Cristoforo Colombo partì dall’Europa per scoprire il mondo e trovare una nuova rotta per andare ad Est. Trovò il Nuovo Mondo. Se fosse vissuto ai giorni nostri, sarebbe invece partito dalla Cina per trovare una nuova rotta per l’Europa, e avrebbe trovato...un Continente Vecchio. Questa, in sintesi, la storia dell’Europa dell’auto negli ultimi 25 anni. Un’Europa che è riuscita a trasformarsi da epicentro della produzione automobilistica globale (34% dei circa 56 milioni di auto prodotte nel mondo nel 2000) a lontano inseguitore (18-19% dei quasi 90 milioni prodotti nel 2024); si trova ora ultima, insieme al Nord America, nella classifica di chi conta per l’industria delle quattro ruote, classifica ormai guidata dalla Cina con il 32% dei volumi totali. Ma questa incredibile scalata le Case Auto cinesi l’hanno realizzata in un modo molto semplice, quasi banale: riconquistando il mercato di casa propria, di cui oggi detengono più del 55% (pochi anni fa era meno di un terzo). La stessa cosa non hanno saputo fare invece le Case Europee, che dopo aver ceduto quote del mercato cinese stanno ora cedendo quote rilevanti del mercato di casa
(vedi Figura 1).

La Cina dell’auto si è quindi ripresa le chiavi di casa (o dell’auto, per meglio dire) arrivando a vendere ad ottobre il 52% delle auto domestiche con un’alimentazione NEV, di cui il 58% full electric, che quindi rappresentano circa il 30% del totale. E qui ciascuno può vedere il bicchiere mezzo pieno (“Più della metà delle vetture vendute in Cina sono elettrificate”) oppure mezzo vuoto (“7 auto su 10 vendute in Cina hanno ancora un motore termico”). Poco cambia, i numeri hanno sempre ragione, e la Cina è passata dal produrre poco più di 2 milioni di auto all’anno a poco meno di 30 milioni.
E il discorso sull’auto finirebbe qui, se non fosse che ormai da alcuni anni auto equivale ad emissioni. Sembra che non si riesca a parlare di auto senza parlare di inquinamento, come se l’automobile fosse l’unica responsabile della CO2, pesando invece meno del 6% delle emissioni globali. Il dibattito sembra invece legare a doppio filo le auto e la CO2 in una sorta di destino condiviso, e allora non si può non evidenziare come l’Est, nuovo protagonista dell’auto come di tanti altri settori (tessile e tecnologico in primis) abbia aumentato il proprio fabbisogno energetico diventando l’officina del pianeta. Non stupisce quindi che la Cina, ad esempio, sia passata da una produzione energetica di soli 50 Tera Joule (TJ) nel 2000 a 160 Tera Joule nel 2022. Grazie alle fonti green? Certo, direbbe il bicchiere mezzo pieno (+12 TJ di gas, +4 di energia nucleare, +10 delle rinnovabili...). Ma al bicchiere mezzo vuoto non sfuggirebbe che la crescita totale della produzione è stata di 110 TJ, di cui però +90 sono derivati dalle fonti fossili (+70 dal carbone, +20 dal petrolio). Di nuovo, una realtà che può essere vista da almeno due angolazioni differenti a seconda di dove voglia sedersi l’osservatore.
Nel frattempo, mentre la Cina vende molte auto e moltissime full electric, le BEV in Europa faticano e non poco, dal momento che le curve di crescita nei principali Paesi si sono appiattite ormai da tempo. I Paesi front runner come Regno Unito, Francia e Germania sono fermi da quasi due anni a quote di penetrazione sul totale venduto che si muovono stabilmente intorno al 15%. I Paesi in coda, come Italia e Spagna, si attestano invece intorno al 4-5% (vedi Figura 2).

Peraltro, l’Europa si conferma una regione estremamente variegata. Da una parte la Norvegia, che ormai ha raggiunto il 96% di immatricolato BEV (ma pesa pur sempre 130.000 auto, quante se ne vendono nella sola provincia di Roma) e ha ridotto la CO2 da trasporto su strada del 6% in 20 anni, e le PM10 del 25% in 10 anni. Il bicchiere mezzo pieno direbbe “Un ottimo risultato, considerato che il 33% dei km percorsi è fatto con auto BEV”. Il bicchiere mezzo vuoto potrebbe invece dire che anche in Italia, dove le BEV valgono meno del 4% del totale, le emissioni di PM10 si sono ridotte dal 2007 del 38% in quasi tutte le regioni, e la CO2 da trasporto su strada di ben il 20%.
Chi vince quindi nel nuovo mappamondo dell’auto? Risposta facile: vince la Cina, anche perché il 60-70% delle vetture di marca cinese vendute in Europa è di fascia prezzo entry level, a differenza delle auto di origine europea che sono invece di fascia media. Chi perde? Probabilmente i brand del Vecchio Continente. E stanno perdendo purtroppo ogni set dell’incontro.

I bilanci non mentono: i nodi vengono sempre al pettine, non esistono scorciatoie

Ma in questa geografia che cambia, le Case Auto in che situazione si trovano? Gli anni 2021-2023 sono stati per l’automobile anni molto critici a causa del chip shortage e della generale mancanza di produzione. Un inferno dal punto di vista delle Operation e della soddisfazione cliente, ma un vero Paradiso dal punto di vista dei bilanci. I Costruttori premium europei hanno portato a casa utili operativi nell’ordine del 10% del fatturato, mentre i Costruttori di massa hanno registrato quasi tutti utili sopra l’8%, con poche eccezioni. Fanalini di coda i marchi “nativi elettrici”, fermi in media sotto il 5. Il motivo di questi risultati? L’effetto prezzo! Con la domanda che supera l’offerta in qualsiasi mercato i prezzi salgono, e le Case Auto bene hanno fatto a non sottrarsi a questa regola. Senza entrare nel dettaglio, molti modelli dei segmenti più bassi hanno visto un aumento del prezzo “chiavi in mano” del 40% tra giugno 2019 e giugno 2024, pari a un aumento di quasi il 10% annuo. Stessa sorte per i segmenti medi, con aumenti tra il 20% e il 35%. In controtendenza invece le auto elettriche che hanno visto numerosi, importanti tagli di prezzo, fino anche al -27% per i modelli più noti.
Ma attenzione, perché questo aumento dei prezzi non ha fatto altro che rinviare le criticità strutturali dell’industria automotive, in particolare la difficoltà di molte Case nel costruire vetture BEV in modo sostenibile (leggasi “profittevole”). Vuoi per i costi legati alla propria legacy, vuoi per la struttura non sempre moderna del modello operativo (distribuzione, sistema incentivante,...), la vendita di una vettura BEV negli Stati Uniti genera una perdita di circa 4.000 dollari (-12% del listino), mentre una vettura termica genera un utile di 2.000 dollari (7% del listino). I problemi irrisolti del settore hanno consentito che con la fine della “ubriacatura” da prezzi i nodi venissero al pettine prima della fine dell’anno. Praticamente tutti i Costruttori tradizionali hanno visto una contrazione del margine (tra i Costruttori di volume l’unica eccezione è Toyota) rispetto a solo sei mesi prima, a differenza invece dei New Comer come Tesla e BYD che sulla scia dei volumi hanno visto crescere il proprio utile operativo rispettivamente all’11% (con un ruolo centrale dei crediti green e del business dell’energia, senza i quali l’utile sarebbe circa la metà) e al 7,2%, valori del tutto in linea con i Costruttori tradizionali in tempi “normali” (vedi Figura 3).

Chi vince quindi tra i Costruttori? Al momento Toyota, Tesla e BYD, ciascuno per ragioni diverse. Ma in particolare chi è nativo “elettrico” inizia ora a fronteggiare problematiche importanti, come i valori residui. In tutti i Paesi europei il valore residuo di un’auto BEV a 3 anni è ormai meno del 40% del valore iniziale, a differenza delle auto termiche che viaggiano intorno al 50-60%. Questa e altre criticità proiettano alcune ombre sul futuro delle aziende native EV, che faticano in Borsa con alcuni titoli che sono decisamente sotto le quotazioni iniziali (titoli come Rivian, Polestar, Lucid, Nikola valgono oggi meno di un decimo del valore iniziale). Chi perde? I Costruttori occidentali, costretti tra l’imponenza del proprio passato e la necessità di reinventare se stessi.

I componentisti hanno resistito, ma la media di settore non rende giustizia della realtà
20 anni di dati di bilancio mettono in evidenza una verità solida: i componentisti auto hanno sempre saputo riemergere più forti dopo ogni crisi, tornando velocemente dopo un downturn ad un livello di profittabilità anche superiore a quello pre-crisi. Un margine, quello dei componentisti auto, che è cresciuto nel tempo dal 9-10% a oltre l’11% degli ultimi anni, ma che nel dato medio non rende giustizia della complessità e della eterogeneità del settore. Sì perché se il margine è salito di un punto percentuale in 20 anni, un’analisi più profonda, che entri nei singoli componenti, mostra una storia articolata.
Chi vince quindi tra i Componentisti? Vincono le aziende che sono rimaste focalizzate su una sola categoria di prodotti, con una strategia precisa che puntasse alla leadership senza ricercare fatturato fine a se stesso, ossia senza perdere di vista la bottom-line. E vince che si è trovato dal lato giusto della storia, ovvero le aziende attive nei semiconduttori, negli pneumatici e nell’elettronica, le tre categorie di prodotto che hanno beneficiato gli azionisti con margini in crescita di diversi punti percentuali. Chi perde? Senza dubbio le società molto diversificate, le cosiddette conglomerate, che servono mercati diversi e spesso poco correlati. Anche qui, il bicchiere mezzo vuoto direbbe “hanno ridotto il margine di due punti”, mentre il bicchiere mezzo pieno potrebbe sindacare “hanno ridotto il rischio, e quindi il rendimento, reggendo meglio durante le fluttuazioni del mercato”. Quel che è certo è che mentre i produttori di batterie e semiconduttori pesavano nel 2003-2007 solo il 4% del profit pool del settore, pari a 44 miliardi di Euro, nel periodo 2021-2023 sono arrivati a pesare quasi il 20% del totale profitti, che però nel frattempo sono lievitati a circa 124 miliardi di Euro (vedi Figura 4).

Ma 20 anni di storia (economico finanziaria) dei Componentisti non hanno omesso di lasciarci alcuni insegnamenti o best practice. È infatti vero che i leader rimangono leader anche dopo le crisi, finanziarie e non, portando a casa profitti sopra la media dei rispettivi mercati in qualsiasi periodo storico. Chi è uscito in velocità da una crisi è infatti colui che ci è entrato più “leggero”, avendo fatto i compiti a casa prima che la crisi iniziasse; porre rimedio appena si entra in una crisi di sicuro aiuta, ma non consente di raggiungere le prime posizioni nella gara della leadership di mercato. E, da ultima, un’altra buona notizia: i primi di ogni settore (solitamente le prime 2-3 aziende) godono di una marginalità superiore alla media di qualsiasi altro settore. Detto in altre parole: non conta in che settore / componente si opera; se si è tra i primi 3, si ottengono risultati di molto superiori alla media. E in un periodo di turbolenza costante come quello attuale, queste best practice sono senza dubbio un punto fermo al quale aggrapparsi con convinzione.

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