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La guerra del silicio: Cina avanti, Usa in caccia, Europa in apnea

- di: Bruno Coletta
 
La guerra del silicio: Cina avanti, Usa in caccia, Europa in apnea
La guerra del silicio: Cina avanti, Usa in caccia, Europa in apnea

Il silicio è il nuovo termometro del potere: Washington costruisce alleanze “da chip”, Pechino resta lo snodo, Berlino spegne i forni.

C’è un materiale che, più di un indice di Borsa, ti dice come gira il mondo: il silicio. Non quello “romantico” delle startup, ma quello vero: forni accesi, bollette elettriche che mordono, navi cariche di materia prima e un dettaglio che oggi pesa come un’alleanza militare: chi controlla il silicio, controlla pezzi cruciali della filiera dei chip, dell’industria chimica e del fotovoltaico.

In questi giorni la fotografia è brutale e chiarissima: la Cina continua a dominare la produzione globale, gli Stati Uniti reagiscono con una coalizione dedicata alla sicurezza delle catene di fornitura e, nel frattempo, la Germania si prepara a perdere l’ultima produzione nazionale. Tre scene, un’unica trama: la geopolitica dell’IA passa dalla metallurgia, non solo dai data center.

Perché proprio il silicio è diventato “strategico”

Un equivoco ricorrente: “silicio” non significa soltanto wafer da smartphone. Parliamo anche di silicio metallurgico e di ferrosilicio, ingredienti che entrano nell’acciaio, nelle leghe di alluminio, nei siliconi industriali e, sì, anche nelle catene che portano al grado ultra-puro per l’elettronica.

La sproporzione produttiva è uno dei motivi per cui la partita si è scaldata: secondo l’US Geological Survey, la Cina ha rappresentato quasi l’80% della produzione mondiale stimata di materiali al silicio nel 2024. Tradotto: se qualcosa si inceppa lungo quella rotta, l’effetto domino arriva fino ai prezzi industriali europei.

La “Pax Silica”: Washington prova a fare sistema

La risposta americana ha un nome che suona volutamente imperiale: “Pax Silica”. L’idea è costruire una rete di paesi “fidati” per mettere in sicurezza IA, semiconduttori e materiali critici: un patto di filiera, più che un trattato classico.

Sui partecipanti iniziali, la lista rimbalza su più fonti convergenti: tra i firmatari e i partner citati compaiono Giappone, Corea del Sud, Singapore, Israele e altri paesi alleati; Politico descrive l’iniziativa come una coalizione per ridurre la dipendenza da Pechino su minerali e tecnologie emergenti. Anche fonti israeliane e istituzionali confermano l’adesione di Israele e inquadrano l’accordo come cooperazione sulla sicurezza delle supply chain legate all’IA.       

Il messaggio, neanche troppo in codice, è: se il mondo sta entrando nell’era dei modelli generativi, allora servono regole comuni su investimenti, controlli export, standard tecnologici e “colli di bottiglia” industriali. È una diplomazia che parla la lingua dei wafer, ma ragiona da potenza.

Il paradosso dei chip: controlli, eccezioni e retromarce

Qui la trama si fa contraddittoria, e proprio per questo interessante. Da un lato, Washington ha continuato a usare la leva dei controlli: il Dipartimento del Commercio ha ampliato nel 2025 la lista di entità cinesi sottoposte a restrizioni, con nuove aggiunte a marzo. Un rapporto del Congressional Research Service riassume bene il pendolo: la seconda amministrazione Trump ha inasprito e allo stesso tempo allentato alcuni aspetti dell’export control sui semiconduttori avanzati.

Dall’altro lato, a dicembre è arrivata una mossa che ha fatto discutere mezzo Congresso e tutta la Silicon Valley: Trump ha annunciato che gli Stati Uniti permetteranno l’export verso la Cina dei processori Nvidia H200 (con condizioni e una fee del 25% sulle vendite), presentandola come un compromesso per “proteggere la sicurezza nazionale” e mantenere il primato USA. La notizia, però, ha subito trovato un contrappunto: secondo Reuters, Pechino potrebbe limitare comunque l’accesso effettivo a quei chip nonostante il via libera americano.

Morale: anche quando un chip “passa”, non è detto che arrivi davvero dove serve. Nel frattempo, l’ecosistema si blinda: negli Stati Uniti è emersa anche una nuova attenzione alle triangolazioni e al contrabbando di GPU avanzate, con indagini e casi di smuggling che alimentano la pressione politica.

Germania, ultimo turno: quando il costo dell’energia spegne i forni

La terza scena è europea, ed è quella che fa più rumore proprio perché non ha nulla di futuristico: è un cancello che si chiude. Il 31 dicembre 2025 è la data indicata per la chiusura di RW Silicium, impianto a Pocking (Baviera), descritto come l’ultima fabbrica tedesca di produzione di silicio; la comunicazione coinvolgerebbe circa 110 lavoratori.

Le cause raccontano un’Europa che, mentre parla di “autonomia strategica”, inciampa sui fondamentali: energia più cara e concorrenza asiatica. Sempre secondo la stessa ricostruzione, il prezzo dell’elettricità sarebbe salito in modo marcato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, e la competizione con il silicio cinese avverrebbe su un terreno di costi e standard non comparabili. RW Silicium, peraltro, si presenta come produttore storico e segnala un organico nell’ordine delle ~120 persone nelle proprie informazioni aziendali.

Il punto non è solo la Germania: è il segnale di una fragilità industriale che può propagarsi. Se perdi capacità produttiva su un materiale a monte, poi a valle paghi prezzi più alti, subisci ritardi e ti ritrovi a discutere di sovranità tecnologica… mentre importi quasi tutto.

Europa tra “atto sulle materie prime” e realtà del mercato

Bruxelles, va detto, ha iniziato a muoversi sul fronte normativo: il Consiglio UE ha dato il via libera definitivo al Critical Raw Materials Act nel marzo 2024, con l’obiettivo di diversificare forniture, aumentare capacità di estrazione e lavorazione, rafforzare riciclo e monitoraggio dei rischi (Consiglio dell’Unione europea, infografica e materiali di sintesi).

Ma tra legge e industria c’è una variabile che non fa sconti: l’elettricità. La produzione di silicio è energivora per definizione. Quindi l’Europa può anche dichiarare strategica una filiera, ma se il costo dell’energia rende antieconomico accendere i forni, la strategia resta un documento e non una fabbrica.

Che cosa ci dice davvero questa storia

Guardata da vicino, la “guerra del silicio” è un manuale di geopolitica contemporanea in quattro lezioni secche:

  • La leadership nell’IA non vive solo nei modelli: vive nella disponibilità di materiali e nella capacità industriale di trasformarli.
  • La Cina resta lo snodo principale della produzione: e questa centralità si traduce in potere negoziale.
  • Gli Stati Uniti rispondono con alleanze di filiera: Pax Silica è un tentativo di “Nato industriale” per l’era dei chip.
  • L’Europa rischia di pagare due volte: prima con energia cara, poi con la dipendenza sulle importazioni.

La domanda che resta sul tavolo è semplice e spietata: l’Occidente vuole davvero competere sul terreno industriale, oppure spera di farlo solo con incentivi a valle e belle parole a monte? Perché il silicio, a differenza degli slogan, non si lascia convincere: o lo produci (a un costo sostenibile), o lo compri da chi lo produce. 

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