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Giovani in fuga dall’Italia: 630mila via in 13 anni

- di: Vittorio Massi
 
Giovani in fuga dall’Italia: 630mila via in 13 anni
Un Paese che forma talenti e li perde: numeri, destini e lavoro povero dietro l’allarme CNEL e Cgil.

Partire per non tornare. È la scelta, silenziosa ma dirompente, di centinaia di migliaia di ragazzi che hanno lasciato l’Italia nell’ultimo decennio e mezzo. Il Rapporto 2025 del CNEL sull’attrattività del Paese per i giovani dei Paesi avanzati fotografa un bilancio pesante: tra il 2011 e il 2024 circa 630mila under 35 italiani hanno fatto le valigie e hanno scelto di vivere altrove. Nel solo 2024 le nuove partenze sono stimate in 78mila giovani, l’equivalente di una città universitaria che scompare dalla mappa nazionale.

A questo dato si affianca un altro allarme, firmato Nidil Cgil e Osservatorio pensioni Cgil: oltre 600mila lavoratori parasubordinati e partite IVA vivono con compensi annui che non garantiscono un presente dignitoso e promettono, domani, solo pensioni da fame. Due fotografie che, sovrapposte, raccontano la stessa storia: l’Italia non è un Paese per giovani.

Il conto della fuga: 630mila giovani e 159,5 miliardi in meno

I numeri del CNEL non sono solo impressionanti, sono strutturali. Nel periodo 2011–2024 il saldo fra chi è partito e chi è rientrato o arrivato in Italia è negativo per circa 441mila giovani. Non si tratta quindi di un semplice turnover: il Paese perde stabilmente intere generazioni che hanno già alle spalle studi, formazione, stage, tirocini pagati con risorse pubbliche e familiari.

Il rapporto quantifica anche il valore economico di questa emorragia: il capitale umano andato all’estero è valutato in circa 159,5 miliardi di euro ai prezzi del 2024, pari a circa il 7,5% del PIL annuo italiano. È il conto, salato, di anni investiti in istruzione e crescita professionale di giovani che oggi mettono competenze, energia e creatività al servizio di altre economie.

Chi parte: geografia ed identikit di una generazione mobile

La fuga non riguarda una sola area del Paese. Secondo il CNEL, il 49% dei giovani emigrati proviene dalle regioni del Nord, il 35% dal Mezzogiorno, il resto dal Centro. A partire non sono solo i laureati in discipline scientifiche, ma un ampio spettro di profili: ingegneri, medici, ricercatori, informatici, ma anche professionisti dei servizi, creativi, tecnici specializzati.

Un elemento colpisce in particolare: la crescita della componente femminile. Nel 2024 quasi la metà dei giovani che se ne vanno è donna, con una quota che supera il 48% e che aumenta rispetto alla media dell’intero periodo. Allo stesso tempo cresce il livello di istruzione: nel triennio 2022–2024 oltre il 42% dei partenti risulta laureato, in netto aumento rispetto a poco più di un terzo stimato sul lungo periodo.

Dove vanno: il magnete dell’Europa e l’Italia poco attrattiva

Le destinazioni più gettonate restano i Paesi europei: Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia, Spagna. Sono contesti in cui la combinazione di stipendi più alti, percorsi di carriera scalabili, welfare più solido e procedure amministrative più snelle rende l’accesso alla vita adulta meno tortuoso.

Sul fronte opposto, il dato che riguarda l’Italia come meta per i giovani stranieri dei Paesi avanzati è sconfortante: viene scelta solo da una quota ridotta, intorno al 2%. In altre parole, il Paese è contemporaneamente poco attrattivo in ingresso e molto “generoso” in uscita nel regalare competenze ai concorrenti.

Non solo estero: il Sud che si svuota e il Nord che assorbe

La mobilità non è solo internazionale. Il rapporto del CNEL registra anche un gigantesco movimento interno: tra il 2011 e il 2024 si spostano dal Mezzogiorno al Centro-Nord, al netto dei rientri, circa 484mila giovani. È una migrazione silenziosa che ridisegna la mappa del Paese.

La regione che perde più giovani è la Campania, con circa 158mila ragazzi e ragazze in meno. Subito dietro la Sicilia, con oltre 116mila giovani che si trasferiscono altrove, e la Puglia, che ne saluta più di 100mila. Sul fronte opposto, la Lombardia attrae quasi 200mila giovani, seguita da Emilia-Romagna e Piemonte. Il risultato è un’Italia sempre più sbilanciata, dove alcune aree si svuotano mentre altre concentrano opportunità, servizi e redditi.

La lettura del CNEL: un Paese in ritardo su cultura, economia e diritti

Il presidente del CNEL, Renato Brunetta, sintetizza così il quadro: la scarsa capacità dell’Italia di trattenere e attirare giovani è la prova tangibile di una serie di ritardi culturali ed economici. Ritardi che comprimono gli standard di vita di tutti, non solo dei ragazzi che fanno le valigie.

Secondo Brunetta, rendere l’Italia un Paese attrattivo per i giovani significa sciogliere una fitta rete di nodi: burocrazia lenta, scarsità di salari adeguati, difficoltà di accesso alla casa, investimenti insufficienti in innovazione e ricerca, sistemi di welfare che danno per scontato il sostegno familiare. Serve, sottolinea, una nuova alleanza fra generazioni, che passi da più responsabilità, più autonomia, più fiducia in chi oggi è spesso relegato in ruoli marginali o precari.

L’altra faccia della medaglia: co.co.co., partite IVA e redditi da fame

Sul fronte del lavoro il grido d’allarme arriva da Nidil Cgil e dall’Osservatorio pensioni Cgil, che hanno analizzato nel dettaglio i dati della Gestione separata Inps. Nel mirino ci sono in particolare i collaboratori coordinati e continuativi e i professionisti con partita IVA esclusiva, cioè senza altre forme di tutela.

Nel 2024 i collaboratori esclusivi hanno percepito in media circa 8.566 euro lordi all’anno. Molto meno di un salario pieno e sufficiente: vuol dire meno di 715 euro al mese su dodici mensilità. Per le donne, che rappresentano quasi la metà della categoria, la media si abbassa a circa 6.839 euro l’anno. Per gli under 35 la soglia scende ancora, attorno a 5.530 euro lordi annui, cioè poco più di 460 euro al mese.

Anche tra le partite IVA esclusive il quadro non è confortante: i redditi medi si aggirano attorno ai 18mila euro lordi l’anno, con le donne ferme intorno ai 15.700 euro e gli under 35 poco sopra i 14.400 euro. Numeri che si traducono in bilanci familiari tiratissimi, zero risparmi, e la difficoltà perfino di maturare una contribuzione sufficiente per una pensione futura.

Pensioni domani: la prospettiva di una vecchiaia povera

La fotografia previdenziale è spietata. Solo una minoranza dei collaboratori riesce a versare per l’intero anno i contributi richiesti, cioè arrivare a una contribuzione piena. Molti si fermano ben prima, a causa di interruzioni lavorative, contratti a spezzoni, retribuzioni così basse da scoraggiare qualsiasi forma di contribuzione volontaria.

L’orizzonte, per chi oggi ha meno di 35 anni e lavora in queste forme, è quello di una pensione possibile solo oltre i 70 anni, con assegni mensili intorno a poche centinaia di euro. Il messaggio implicito è devastante: lavoro povero oggi, vecchiaia povera domani. Un doppio vincolo che spinge molti giovani a considerare l’estero non una scelta di avventura, ma un piano di sopravvivenza.

Legge di Bilancio e grandi assenti: i giovani precari

Nidil Cgil e Osservatorio pensioni sottolineano un altro punto: la legge di Bilancio in discussione non interviene in modo sostanziale su queste platee. I circa 208mila collaboratori e le oltre 430mila partite IVA individuali coinvolte restano sostanzialmente fuori da misure organiche di sostegno al reddito, alla contribuzione o alla stabilizzazione contrattuale.

Mentre si discute di bonus, ritocchi fiscali e incentivi sparsi, chi lavora in modalità parasubordinata o in autonomia debole continua a muoversi in un terreno fatto di redditi intermittenti, scarsa tutela, contributi frammentati. Per molti, l’alternativa concreta non è tra restare in Italia o trasferirsi altrove, ma tra restare precari a vita o provare un salto nell’incertezza all’estero, dove almeno la prospettiva salariale è più alta.

Il contesto internazionale: 6,4 milioni di italiani all’estero

Il quadro tracciato dal CNEL dialoga con i dati del Rapporto Italiani nel Mondo 2025 della Fondazione Migrantes. Al 1° gennaio 2025 sono circa 6,4 milioni gli italiani iscritti all’anagrafe degli italiani all’estero: un’“Italia fuori dall’Italia” che per dimensioni sarebbe a tutti gli effetti una grande regione in più.

Nel solo 2024 si sono registrati oltre 120mila espatri, con un incremento vicino al 40% rispetto all’anno precedente. Il saldo migratorio degli ultimi vent’anni è ampiamente negativo: circa 1,6 milioni di espatri contro meno di 830mila rimpatri. Significa che il fenomeno non è un’onda passeggera, ma una corrente profonda che sta cambiando il volto demografico e sociale del Paese.

Non solo fuga di cervelli: fuga di possibilità

Parlare solo di “fuga di cervelli” è riduttivo. Oggi se ne vanno non solo i ricercatori o i professionisti super qualificati, ma una galassia di talenti diffusi: infermieri, tecnici, artigiani altamente specializzati, creativi, operatori del turismo, lavoratori dei servizi. Se ne vanno perché altrove vedono una prospettiva di vita completa: un lavoro meno fragile, una retribuzione che consente di progettare un futuro e non solo di “tirare a fine mese”, la possibilità di mettere su famiglia senza trasformare ogni scelta in un rischio.

In questo senso, il fenomeno è meno una “fuga” e più una migrazione di possibilità: i giovani seguono dove si spostano le condizioni minime per una vita adulta autonoma.

Che cosa dovrebbe fare l’Italia per invertire la rotta

L’analisi dei dati porta a una conclusione netta: senza una svolta, il Paese rischia di diventare una fabbrica di talenti in conto terzi, che forma ottimi lavoratori per poi lasciarli andare. Per evitare questo scenario, gli esperti indicano alcune direttrici di intervento:

  • Lavoro dignitoso: salario minimo adeguato, riduzione del ricorso strutturale a contratti precari, limiti alle finte partite IVA e alle collaborazioni seriali.
  • Fisco e welfare giovani: agevolazioni per chi rientra, sostegni concreti all’affitto e all’acquisto casa, servizi per l’infanzia che non scarichino tutto sulle famiglie.
  • Investimenti in ricerca e innovazione: più risorse per università, centri di ricerca, imprese innovative, con percorsi chiari di carriera per i giovani laureati.
  • Politiche territoriali: piani specifici per il Mezzogiorno che non siano solo assistenziali ma puntino su infrastrutture, ecosistemi produttivi e qualità dei servizi.
  • Tutele previdenziali: meccanismi che riconoscano discontinuità di carriera e bassi redditi, evitando che intere generazioni arrivino alla vecchiaia senza un assegno sufficiente.

Un nuovo patto generazionale, o il declino in silenzio

Dietro agli 8.566 euro medi di un co.co.co. o ai 5.530 euro di un under 35 in gestione separata non ci sono solo bilanci in rosso, ma biografie sospese. Chi rinvia la scelta di avere figli, chi non riesce a lasciare la casa dei genitori, chi vive cambiando città, contratto e datore di lavoro ogni pochi mesi, senza accumulare diritti.

Il CNEL e le analisi della Cgil convergono su un punto: serve un nuovo patto generazionale. Vuol dire riconoscere che la questione giovanile non è un tema di costume, ma il cuore del futuro economico e sociale dell’Italia. Senza giovani motivati, ben pagati, messi nelle condizioni di restare e tornare, il Paese rischia un declino lento ma inesorabile.

La scelta, ora, è politica e collettiva: accettare che il futuro si costruisca altrove, o trasformare l’Italia in un luogo in cui i giovani non siano costretti a partire per poter sperare in qualcosa di più di una pensione da fame a 71 anni.

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