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Mps e Banco Bpm, il risiko che decide il futuro del Monte

- di: Marta Giannoni
 
Mps e Banco Bpm, il risiko che decide il futuro del Monte
Il governo sogna il “terzo polo” bancario, il mercato guarda a Siena, Milano e Parigi e Bruxelles prepara la lente sui poteri speciali italiani: cosa c’è davvero dietro alle nuove indiscrezioni sulla fusione tra Monte dei Paschi e Banco Bpm.

Monte dei Paschi di Siena è tornata al centro del risiko bancario italiano. Secondo indiscrezioni raccolte negli ultimi giorni, il governo sarebbe pronto a giocare una nuova partita di M&A per ridurre ulteriormente la quota pubblica nel capitale della banca più antica del mondo, oggi attorno al 4,9%. Sul tavolo, l’ipotesi che da anni anima i corridoi di Roma e Milano: una fusione con Banco Bpm, considerata l’opzione domestica preferita per dare vita a un “terzo polo” capace di affiancare i colossi Intesa Sanpaolo e UniCredit.

Lo scenario è tutt’altro che semplice. Prima c’è da completare l’operazione più delicata degli ultimi anni, l’integrazione di Mediobanca nel perimetro del Monte. Poi bisognerà fare i conti con le ambizioni di Banco Bpm, corteggiata anche da un grande gruppo francese, e con i dubbi di Bruxelles sui poteri speciali italiani nel settore bancario. In mezzo, restano gli interessi dello Stato, degli azionisti privati che hanno scommesso sul rilancio di Mps e dei territori che da Siena a Milano guardano a ogni mossa con un misto di speranza e timore.

Un risiko che parte da Siena

Per capire perché oggi Mps e Banco Bpm tornano al centro dei giochi bisogna ripartire dal salvataggio pubblico del 2017. All’epoca, dopo una lunga crisi, lo Stato era arrivato a detenere circa il 68% del capitale di Monte dei Paschi. In cambio del via libera europeo agli aiuti, Roma si era impegnata a riportare la banca sul mercato entro pochi anni, con una serie di tappe di privatizzazione concordate con la Commissione.

Negli anni successivi il Tesoro ha avviato una strategia di uscita graduale, fatta di collocamenti accelerati sul mercato e cessioni a investitori istituzionali. Tra novembre 2023 e la fine del 2024, una sequenza di operazioni ha portato alla vendita complessiva di diverse tranche, per un incasso stimato di diversi miliardi e una progressiva riduzione della partecipazione statale. Alla fine di questo percorso, la quota residua si è attestata intorno al 4,9%, livello che consente al Tesoro di restare azionista di riferimento ma senza più il controllo assoluto del passato.

Questa trasformazione è avvenuta mentre il Monte completava un duro piano di ristrutturazione: taglio dei costi, riduzione del personale, pulizia dei crediti deteriorati, ritorno stabile all’utile e rafforzamento patrimoniale. Il messaggio politico era chiaro: banca risanata, ora tocca al mercato. Ma per chiudere davvero la stagione dell’emergenza, al governo non basta essere un azionista di minoranza; serve una soluzione industriale di lungo periodo che inserisca Mps in un gruppo più grande.

Il piano di Roma tra Mediobanca e Banco Bpm

Il primo tassello della strategia è l’operazione Mediobanca. L’idea è costruire un gruppo capace di unire il radicamento territoriale di Mps con il know-how finanziario e patrimoniale di Mediobanca, dando vita a un player più solido e diversificato.

L’integrazione, però, non sarà un pranzo di gala. Serviranno mesi, se non anni, per armonizzare sistemi informatici, modelli di business, reti commerciali e funzioni centrali. Per questo, secondo chi conosce il dossier, il Tesoro avrebbe deciso di non toccare nell’immediato la quota residua del 4,9%, ritenuta un elemento di stabilità in una fase in cui il cantiere Mediobanca assorbirà time, energie e capitale manageriale.

La seconda fase del piano guarda invece a Banco Bpm. A Roma molti ritengono che, una volta consolidato il matrimonio con Mediobanca, la soluzione naturale sia una fusione con il gruppo guidato da Giuseppe Castagna. Banco Bpm ha già una partecipazione intorno al 3,7% in Mps, frutto delle precedenti cessioni del Tesoro, ed è da tempo indicata come la pedina chiave per dare spessore al “terzo polo”.

Il governo vedrebbe con favore una aggregazione tutta italiana Mps–Banco Bpm, che consentirebbe di mantenere in mani domestiche un gruppo di dimensione sistemica, con forti radici nei territori e una presenza capillare nel Nord e nel Centro del Paese. Una fusione, inoltre, offrirebbe una via d’uscita ordinata alla partecipazione pubblica: il Tesoro potrebbe diluirsi ulteriormente nel capitale del nuovo soggetto, vendendo quote in momenti favorevoli di mercato.

Non a caso, nei giorni scorsi più di un addetto ai lavori ha letto le nuove indiscrezioni come la riapertura di un capitolo che in realtà, ai piani alti, non era mai stato archiviato: il progetto di un Monte rilanciato, reso più forte da Mediobanca e infine integrato con Banco Bpm, nel solco di un risiko bancario che da anni agita Piazza Affari.

Le mosse di Banco Bpm e l’ombra francese

Se per il governo la fusione con Mps è la strada preferita, per Banco Bpm la partita è più complessa. Negli ultimi anni il gruppo ha conosciuto una significativa ristrutturazione interna e un rafforzamento dei conti, diventando una preda ambita e al tempo stesso un potenziale cacciatore nel risiko nazionale.

Nel capitale di Banco Bpm è entrato in modo sempre più deciso un grande istituto francese, che oggi ne è il principale azionista con una quota attorno al 20% e un ruolo centrale nelle partnership commerciali. Non è un mistero che da Parigi si guardi da tempo a Banco Bpm come a una porta d’ingresso privilegiata sul mercato retail italiano. Per questo, molte banche d’affari considerano ancora un’operazione transfrontaliera come l’alternativa più concreta a un matrimonio con Mps.

Da parte sua, il management di Banco Bpm ha sempre lasciato intendere che il consolidamento resta un’opzione sul tavolo, ma senza vincoli precostituiti. In più occasioni il numero uno del gruppo ha ribadito che le scelte verranno fatte in base al valore industriale e alla creazione di valore per gli azionisti. In altre parole: Roma può preferire Mps quanto vuole, ma l’ultima parola spetta agli organi societari e al mercato.

La presenza di un grande socio francese complica ulteriormente la geometria. Un’eventuale fusione Mps–Banco Bpm dovrebbe essere disegnata in modo da riconoscere il peso di questo azionista, senza però trasformare il nuovo soggetto in una controllata d’Oltralpe. È un equilibrio delicatissimo, che coinvolge non solo finanza e governance, ma anche sensibilità politiche e rapporti con i regolatori.

Golden power, Bruxelles e il rischio braccio di ferro

Su questo scenario si innesta il tema più sensibile: i poteri speciali dell’Italia in materia di banche e il rapporto con la Commissione europea. Negli ultimi mesi, Bruxelles ha alzato il livello d’attenzione sull’uso del cosiddetto golden power nel settore finanziario, giudicato in alcuni casi eccessivo e potenzialmente lesivo delle regole del mercato unico.

In particolare, l’uso dei poteri speciali per arginare iniziative di grandi gruppi europei su banche italiane è finito sotto esame delle istituzioni comunitarie, che stanno valutando se avviare o meno procedure formali di infrazione. L’obiettivo dichiarato dell’Unione è favorire un consolidamento più integrato del sistema bancario, anche attraverso aggregazioni transfrontaliere, considerato essenziale per finanziare la transizione verde e digitale e rafforzare la competitività europea rispetto a Stati Uniti e Asia.

In questo contesto, un eventuale progetto di fusione Mps–Banco Bpm sponsorizzato da Roma dovrà muoversi su un crinale stretto. Da un lato, il governo rivendica la necessità di proteggere le banche considerate strategiche per l’economia nazionale; dall’altro, dovrà dimostrare che le scelte non hanno l’effetto di chiudere il mercato a operatori europei, alimentando la percezione di un protezioneismo mascherato.

Non è un caso che, nei colloqui informali, più di un funzionario europeo segnali il rischio di un nuovo braccio di ferro se l’Italia dovesse usare i poteri speciali per orientare troppo pesantemente il risiko bancario a favore di soluzioni esclusivamente domestiche. Il dossier Mps–Banco Bpm, insomma, non riguarda solo Siena e Milano, ma si inserisce nel più ampio dibattito sul futuro dell’Unione bancaria.

I numeri di Mps, la Borsa e il fattore tempo

Al di là dei giochi di potere, ci sono i numeri. Negli ultimi trimestri Mps è tornata a produrre utili consistenti, beneficiando del ciclo dei tassi alti, della riduzione dei crediti deteriorati e del taglio di costi operativi storicamente troppo elevati. I ratios patrimoniali sono tornati complessivamente solidi e la banca è riuscita a convincere investitori privati di peso a entrare nel capitale in occasione delle cessioni del Tesoro.

Proprio la presenza di azionisti privati forti – famiglie imprenditoriali, investitori istituzionali, fondi – rende oggi più sensibile qualsiasi ipotesi di M&A. Da un lato, un’aggregazione con Banco Bpm potrebbe valorizzare le sinergie industriali e dare una dimensione più robusta al gruppo risultante; dall’altro, il mercato teme ristrutturazioni pesanti, rischi di execution e possibili diluizioni del capitale esistente.

Non sorprende, quindi, che le ultime indiscrezioni non abbiano scatenato euforia in Borsa. Gli investitori sono ormai abituati a vedere ciclicamente tornare a galla il tema della fusione Mps–Banco Bpm, spesso senza esiti concreti. In più, la fase attuale dei mercati – segnata da volatilità e dai timori su crescita e tassi – non aiuta operazioni complesse che richiedono visione di lungo periodo.

Il fattore tempo, poi, è decisivo. L’integrazione di Mediobanca impegnerà Mps a lungo e difficilmente un cantiere ancora aperto potrà convivere con l’apertura di un altro maxi cantiere sull’asse Siena–Milano. Ecco perché molti analisti vedono nella fusione con Banco Bpm un obiettivo di medio periodo, legato anche all’evoluzione del quadro politico, alle relazioni con Bruxelles e alle mosse degli altri grandi gruppi europei.

Cosa può cambiare per clienti, territori e concorrenza

Per i clienti, oggi, poco cambia nell’immediato. I conti correnti restano dov’erano, le filiali continuano a funzionare e i contratti non vengono toccati da indiscrezioni e scenari. Ma nel medio periodo una grande aggregazione tra Mps, Mediobanca e Banco Bpm ridisegnerebbe la mappa del credito in diverse aree del Paese.

Nel Centro Italia, il Monte resta la banca di riferimento per famiglie e Pmi in Toscana e in altre regioni limitrofe. Nel Nord, Banco Bpm è un pilastro per il tessuto produttivo lombardo e veneto. Un gruppo integrato avrebbe una posizione di forza rilevante su finanziamenti, mutui, servizi alle imprese e gestione del risparmio in aree tra le più dinamiche d’Europa.

Per i territori, la partita si gioca su più piani. Da un lato, un gruppo più forte e patrimonialmente solido potrebbe garantire maggiore stabilità nei momenti di crisi e più risorse per progetti di sviluppo. Dall’altro, incombe il timore di nuove razionalizzazioni delle reti, ulteriori chiusure di sportelli, accorpamenti di funzioni centrali con potenziali impatti sull’occupazione, soprattutto nelle sedi storiche.

C’è poi il tema della concorrenza. Un terzo grande gruppo nazionale, accanto a Intesa Sanpaolo e UniCredit, potrebbe rendere il mercato più equilibrato, favorendo un confronto più serrato su tassi, commissioni e servizi digitali. Al tempo stesso, però, bisognerà vigilare affinché il peso di pochi grandi operatori non si traduca in una posizione dominante in alcune aree, a scapito della pluralità di offerta e delle banche di territorio.

Il bivio dell’Italia del credito

La partita Mps–Banco Bpm è, in fondo, il riflesso di un bivio più ampio: che sistema bancario vuole costruire l’Italia nei prossimi anni? Un sistema a forte trazione nazionale, con pochi grandi gruppi domestici protetti dai poteri speciali, o un sistema davvero europeo, in cui l’Italia è protagonista ma accetta il confronto con i colossi stranieri sul terreno delle aggregazioni transfrontaliere?

La scelta non riguarda solo i palazzi della politica e della finanza. Riguarda le imprese che cercano credito per investire, le famiglie che chiedono mutui, i risparmiatori che affidano alle banche una fetta crescente del proprio patrimonio. Un’eventuale fusione Mps–Banco Bpm potrebbe rappresentare una storica occasione di rafforzamento del sistema, oppure l’ennesima operazione calata dall’alto, pensata più per esigenze di bilancio pubblico che per il futuro dei clienti.

Per ora, il governo si tiene stretta la sua quota del 4,9% nel Monte e lascia filtrare il messaggio di avere in mente un disegno preciso. I mercati, però, chiedono una cosa semplice: chiarezza su tempi, obiettivi e governance. Solo allora il risiko bancario smetterà di essere un eterno gioco di indiscrezioni e diventerà, finalmente, una strategia credibile per il credito italiano. 

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