Citizen Kane: ritorna il capolavoro di Orson Welles

- di: Teodosio Orlando
 

Ritorna nelle sale cinematografiche uno dei capolavori immortali della cinematografia di tutti i tempi (addirittura alcune fonti, come l’American Film Institute, la rivista cinematografica Sight & Sound e la BBC, lo classificano come “il miglior film statunitense mai realizzato”): Citizen Kane, diretto e interpretato da Orson Welles, e solo in Italia tradotto con il titolo Quarto potere. Il comeback del film del 1941 avviene grazie a I Wonder Classics, ossia la divisione della società di distribuzione I Wonder Pictures che si occupa della riscoperta dei classici d’autore. Viene così proposta una copia restaurata e rimasterizzata, in lingua originale con sottotitoli, in collaborazione con Unipol Biografilm Collection.

Citizen Kane: ritorna il capolavoro di Orson Welles

A distanza di oltre 80 anni da quando il capolavoro approdò nelle sale statunitensi (mentre il pubblico italiano, a causa della guerra, dovette aspettare fino al 1948), la riflessione filmica di Orson Welles viene ancora indicata come un’esplorazione profonda e meditata dell’incidenza dei media sull’opinione pubblica. È quasi scontato sottolineare la perenne “attualità” della pellicola o la sua permanenza come spunto di riflessione sul potere esercitato dalle grandi fonti di informazione nella società: semplicemente, oggi è diventato di prammatica estendere le sue considerazioni all’universo del digitale e ai social network, così onnipervasivi da condizionare ogni decisione politica, spesso in spregio a qualsiasi deontologia professionale, fino ad arrivare a produrre le cosiddette fake news. E non trascuriamo il fatto che stiamo vivendo in un anno, il 2024, in cui due miliardi di persone in 76 Paesi, tra cui gli Stati Uniti, saranno chiamati a un appuntamento elettorale.

La narrazione di Quarto Potere si incentra sulla biografia di un magnate dell’editoria statunitense, Charles Foster Kane, partendo dalla sua morte, avvenuta in assoluta solitudine nella sua lussuosissima residenza, sofisticata e vagamente minacciosa, denominata con il nome orientaleggiante di Xanadu: una serie di flashbacks retrospettivi ci riportano alla sua infanzia travagliata, all’eredità che improvvisamente irrompe nella sua vita aprendogli la possibilità di dedicarsi a una carriera nel giornalismo, il cui esito sarà la capacità di controllare una quarantina tra testate ed emittenti radiofoniche. Ed è poi un succedersi di relazioni sentimentali, di matrimoni e di vicende poco trasparenti, fino allo scandalo che tronca la sua avanzata verso il governatorato di New York e forse verso la stessa presidenza degli Stati Uniti. Tutte vicende narrate senza una precisa sequenza cronologica e senza un distacco oggettivo. A soli 25 anni, Welles veste i panni del regista, dello sceneggiatore (in collaborazione con Herman J. Mankiewicz) e del protagonista del lungometraggio, decidendo di ricostruirne la storia attraverso i ricordi di tutti coloro che si erano imbattuti in lui: è quasi una ricostruzione corale da diverse prospettive. Ognuno manifesta una diversa opinione sul magnate, ipotecando fortemente la narrazione: similmente a quanto accade in un altro capolavoro della storia del cinema, ossia Rashōmon di Akira Kurosawa, non esiste la possibilità di individuare la verità nella ricostruzione della biografia di Kane. Ogni testimone appare come chi ha  conosciuto un uomo diverso, palesando una sua propria verità. Lo stesso regista si pone come, forse, colui che più di tutti si avvicina al senso degli eventi, notando dettagli ignorati da altri, tra cui il misterioso significato dell’ultima parola proferita da Kane, “Rosebud” (nella traduzione italiana “Rosabella”: è il nome dello slittino su cui giocava quando venne strappato ai genitori, ma è anche il simbolo del suo trauma infantile).

Tutte scelte innovative che decretarono un parziale insuccesso commerciale del film, insieme con l’aspra polemica diretta contro Welles dall’editore filonazista William Randolph Hearst, che per molti versi ispirò la figura di Kane. Hearst a soli 23 anni decise di acquistare e potenziare un giornale locale, il San Francisco Examiner, ispirandosi a Joseph Pulitzer, che dirigeva il New York World. Anche Kane, disponendo del cospicuo patrimonio familiare, acquista un giornale locale in crisi, The New York Examiner, trasformandolo in una testata di successo: pur non praticando la separazione tra editore e direttore del giornale (come accade nel film The Post di Steven Spielberg), Kane dichiara con solenne ipocrisia che il quotidiano rispetterà la “verità”, senza tollerare interferenze di nessun tipo. Il potere della stampa viene evidenziato indirettamente attraverso due episodi: la guerra tra Stati Uniti e Spagna per il controllo di Cuba (1898) e l’attacco a un politico locale, che si ritorce contro Kane stesso quando quest’ultimo verrà scoperto con un’amante segreta, fino a divenire l’oggetto di una campagna di stampa così violenta da frenare la sua corsa al potere politico.

Va comunque sottolineato che, ancora più che nel quasi coevo Tempi moderni (Modern Times, 1936) di Charlie Chaplin, benché in modo meno evidente, nel film di Welles si realizza l’osservazione di Marshall McLuhan (nel celebre libro Gli strumenti del comunicare [Understandig Media], 1964) per cui il cinematografo era chiamato un tempo bioscope (dal greco bíos [βίος], vita), perché presentava in termini visivi i movimenti delle forme di vita. Il cinema è un mezzo mediante il quale arrotoliamo il mondo reale su una bobina per poi srotolarlo come una sorta di tappeto magico della fantasia; è una sensazionale combinazione tra la vecchia tecnologia meccanica e il nuovo mondo elettrico. In qualche modo lo spettatore di Citizen Kane vive su sé stesso questa fusione tra il meccanico e l’organico ricollegandosi in forma inconscia alla tecnologia della stampa: deve seguire quelle sequenze di “fotogrammi” bianchi e neri che sostituiscono la tipografia e aggiungervi una sua colonna sonora personale. Egli cerca di seguire i contorni della mente del regista, a velocità variabili e con l’illusione di aver compreso tutto. In fondo, lo spettatore al cinema non è molto dissimile dal lettore di libri e giornali, perché, alla stessa stregua di quest’ultimo, accetta come un fatto razionale la sequenza in sé stessa. Dovunque si volga la cinepresa, per lo spettatore le cose cambiano poco, perché si sente trasportato in un altro mondo. Come osservava René Clair, lo schermo apre la sua porta bianca su un harem di belle cose e di sogni da adolescenti, al cui confronto il più seducente dei corpi reali appare difettoso. E non a caso il grande poeta William Butler Yeats considerava il cinema un mondo di ideali platonici dove il proiettore ha la funzione di «una schiuma su uno spettrale paradigma delle cose» («a spume upon a ghostly paradigm of things» [versi tratti dalla poesia Among School Children]).

Peraltro, gli storici del cinema sono tutti concordi nell’attribuire al film di Welles un ruolo chiave nel rinnovare l’organizzazione del testo cinematografico e nel variare il cosiddetto découpage classico (ossia la sceneggiatura definitiva di un film, con le scene suddivise in inquadrature). Il tutto avviene sostanzialmente attraverso l’uso di due tecniche: la profondità di campo e il piano sequenza. Il piano sequenza è un’inquadratura che svolge autonomamente tutte le funzioni di una scena. Mentre la scena rappresenta un episodio attraverso la successione di più inquadrature, il piano sequenza effettua la stessa operazione tramite un’unica inquadratura. La profondità di campo è invece quell’articolazione dell’inquadratura in più livelli, dove ciò che sta sullo sfondo non è più flou, come accadeva nel cinema classico degli anni Trenta, ma viene messo a fuoco alla stessa maniera di quello che è in primo piano. Con queste due tecniche, non è più il film a imporre un proprio découpage uguale per tutti, ma è lo stesso spettatore che si compone il proprio découpage, recuperando una libertà di sguardo, pur oggettivamente limitata dai confini dell’inquadratura, che il cinema “classico” gli aveva negato. In Citizen Kane queste tecniche sono evidenti in varie scene. Ad esempio, quella in cui una donna, stesa sul suo letto, ha appena tentato di suicidarsi, ingerendo una boccetta di sonniferi. Welles gira l’intera scena in un’unica inquadratura costruita su tre diversi livelli di profondità: in primo piano il flacone del sonnifero, subito dietro il volto della donna e sullo sfondo, perfettamente a fuoco, la porta che di lì a qualche istante verrà abbattuta da un uomo che tenta di salvarla. Al montaggio propriamente detto, si sostituisce il montaggio interno, tramite la messa in profondità di quegli elementi “diegetici” che costituiscono il perno dell’azione. Lo spettatore è più libero di decidere che cosa guardare: il sonnifero, la donna, il marito, l’immagine nel suo complesso, ecc.

Ma Citizen Kane non è solo un esercizio di stile cinematografico: è anche una potente meditazione sulle conseguenze del potere e dell’isolamento, che mette in discussione le convenzioni e le istituzioni che influenzano la vita di Kane e il mondo che lo circonda, allorché tenta di proiettare in primo piano la lotta di Kane per trovare un senso nelle sue azioni e per tentare di sfuggire alla gabbia dorata del suo successo: sicché la sua personalità somiglia a un labirinto di specchi (come anche in un altro film di Welles, La signora di Shanghai, secondo un’osservazione di Umberto Eco) in cui l’io si riflette e si dissolve, sfuggendo costantemente alla nostra comprensione.

Ben pochi, tra l’altro, hanno ricordato, in occasione di questo ritorno del film nelle sale, che alla sua uscita poté godere di due “recensori” di eccezione: il filosofo Jean-Paul Sartre e lo scrittore Jorge Luis Borges.

Sartre pubblicò la sua recensione sulla rivista L’Écran français (n. 5, del 1° agosto 1945), preceduta da una breve sinossi dove si sottolinea «l’audace attacco contro G. H. Hearst, il magnate fascista della stampa americana». Ricordiamo che L’Écran français era una sorta di emanazione del periodico comunista le Lettres françaises e la recensione è stata ripubblicata negli scritti di Sartre (Situations 2, nuova edizione) solo nel 1998. Sartre sottolinea che si tratta di un film che sconvolge le abitudini americane, perché è un’opera intellettuale, o meglio un’opera di un intellettuale. Ma, d’altra parte –osserva l’autore dell’Essere e il nulla –, si tratta di un’opera unica negli Stati Uniti ma che non guadagnerebbe nulla ad essere trapiantata in Europa. Peraltro, Sartre osserva come Welles, dopo aver perfino inscenato opere teatrali nelle quali Giulio Cesare compare, come Mussolini, in camicia nera e stivali, avesse deliberatamente abbandonato il cinema per il giornalismo politico. E il film, secondo lui, si inseriva in una serie di manifestazioni che avevano tutte lo stesso senso e lo stesso scopo: l’antifascismo. Ma il suo vero e autentico interesse politico era un altro: con tutti i mezzi a sua disposizione (cinema, teatro, giornalismo) voleva conquistare le masse americane al liberalismo. Sicché, nell’ottica di Sartre, Citizen Kane era un film che voleva dimostrare una tesi e insieme fare satira contro il re della stampa, Hearst, conservatore, filotedesco, isolazionista, antisovietico, antifrancese. Ma la satira – aggiunge Sartre – non è la pura trasposizione della vita: interpreta, spiega, carica di ridicolo, sfuma i caratteri e presenta un quadro tendenzioso. Insomma, è la vita ripensata (la vie repensée), ricomposta dall’intelligenza. Siamo molto lontani dal film classico americano la cui più grande virtù è la semplicità realistica. Il film è concepito come un problema: ci sono dati, un enunciato e la soluzione sarà adombrata nelle ultime immagini: “che cosa ha voluto dire Kane pronunciando la parola Rosebud”? Sembra quindi che Welles voglia far pensare i suoi spettatori, invitandoli a chiedersi chi sia uno dei personaggi più famosi del mondo politico americano. E ovviamente, tutto il film ha un leggero profumo di psicoanalisi, che si manifesta soprattutto nella decisione del regista di raccontare la sua storia al passato (Kane infatti è morto all’inizio del film, e nelle prime scene conosciamo prima i suoi amici nella loro maturità). Nei film americani dell’epoca, al contrario, tutto era girato al presente: lo spettatore era contemporaneo al personaggio; quando l’eroe si avvicina alla coppa avvelenata, è perché ancora non sa se berrà, se morirà. I giochi non sono fatti. In Citizen Kane, i giochi sono fatti (les jeux sont faits). Non abbiamo a che fare con un romanzo, ma con un racconto al passato.

Da ciò deriva una maggiore rapidità nell’alternarsi delle immagini, con ellissi e salti improvvisi, come nei racconti che facciamo nella vita di tutti i giorni, rapidamente e senza arte. E queste narrazioni retrospettive si interrompono bruscamente perché il narratore non ne sa o non ne vuole dire di più.  E spesso in una sola scena, come se fosse una frase che condensa un gran numero di eventi vissuti giorno per giorno, troviamo una sorta di abbreviazione che generalizza. Basta un’unica scena per capire la personalità di Kane, il quale costringe, per testardaggine, la sua amante, che canta stonata, a esibirsi ovunque nei vari teatri dell’opera. Spesso la composizione dell’immagine ricorda a Sartre i dipinti del Tintoretto dove, per catturare ancora di più l’attenzione, il pittore metteva in primo piano personaggi di poco conto, mentre faceva intravedere sullo sfondo, tra due enormi gendarmi, sotto il braccio di un bambino, la silhouette quasi incolore di Cristo o del santo di cui stava narrando la vita. Nel film siamo costantemente sopraffatti da queste immagini troppo lavorate, e forse grottesche, come in un romanzo il cui stile si spingerebbe sempre al primo piano e di cui ci si dimentica in ogni istante i personaggi. Ma, come ha osservato un altro filosofo francese, Gilles Deleuze (nel “dittico” sul cinema, L’immagine-movimento e L’immagine-tempo), ciascuna immagine in Welles possiede quel che Bergson chiama «punti luminosi», singolarità, che raccolgono, come una totalità inespressa, l’intera vita di Kane in un orizzonte vagamente nebuloso. I testimoni risaliranno di certo alle falde del passato per evocare le immagini-ricordo, per ricostruire cioè gli antichi presenti. Ma in realtà, esse sono differenti dalle immagini-ricordo che le attualizzano nella stessa misura in cui il passato puro può esserlo dall’antico presente che è stato. Ogni testimone somiglia a un personaggio di Proust, che salta nel passato in generale e si installa di colpo in questa o quella regione coesistente, prima di incarnare certi punti della regione in un’immagine-ricordo.

Più simpatetica è la recensione di Borges (pubblicata sulla rivista argentina Sur, nell’agosto del 1941). Il grande scrittore argentino sottolinea che il film esibisce almeno due temi: il primo vuole suscitare l’applauso dei più distratti ed è così riassumibile: un milionario vanitoso accumula statue, automobili biblioteche, uomini e donne. Come un precedente collezionista (le cui osservazioni sono tradizionalmente attribuite allo Spirito Santo), scopre che queste accumulazioni sono la vanità delle vanità e che tutto è vanità. Al momento della sua morte, desidera un’unica cosa nell’universo: una slitta con cui giocava da bambino! Il secondo tema è di gran lunga superiore, perché collega il libro biblico dell’Ecclesiaste alla narrativa di Franz Kafka. Il tema autentico (insieme metafisico e poliziesco, psicologico e allegorico) è l’indagine dell’anima segreta di un uomo attraverso le opere che ha compiuto, le parole che ha pronunciato, i molti destini che ha distrutto. Il procedimento è quello di Joseph Conrad nel romanzo Chance (1914) e del film The Power and the Glory, diretto da William K. Howard (1933): attraverso scene eterogenee, non in ordine cronologico, in modo travolgente e indefinito, Welles mostra i frammenti della vita di un uomo, Charles Foster Kane, e ci invita a combinarli e a ricostruirli, nonostante varie forme di incongruenza. Del resto, in una delle ultime scene, la moglie di Kane, sgargiante e sofferente, gioca con un enorme puzzle sul pavimento del palazzo Xanadu, che è anche un museo: i frammenti non sono governati da un’unità segreta: il detestato Charles Foster Kane è un simulacro, un caos di apparenze. Borges paragona così il personaggio di Welles alle figure tratteggiate dal suo amico Macedonio Fernández: “nessun uomo sa chi è; nessun uomo è qualcuno”, come già sapevano filosofi come David Hume ed Ernst Mach. Per Borges, il film di Welles ricorda anche uno dei racconti di Gilbert Keith Chesterton, La testa di Cesare (The Head of Caesar), ma ha il difetto di soffrire di gigantismo e di pedanteria. Non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e germanico di questa parola.

 

Quarto potere

Titolo originale               Citizen Kane

Lingua originale              inglese

Paese di produzione         Stati Uniti d’America

Anno                            1941

Durata                          119 minuti

Dati tecnici                    B/N

Genere                         drammatico

Regia                           Orson Welles

Soggetto e sceneggiatura  
Orson Welles, Herman J. Mankiewicz

Produttore                    
Orson Welles per Mercury Theatre e George Schaefer per RKO

Casa di produzione         
Mercury Theatre - RKO Radio Pictures

Distribuzione in italiano    RKO (1948)

Fotografia                      Gregg Toland

Montaggio                     Robert Wise

Effetti speciali                 Vernon L. Walker

Musiche                        Bernard Herrmann

Scenografia                   
Van Nest Polglase, Perry Ferguson

Costumi                        Edward Stevenson

 

Interpreti e personaggi

Orson Welles: Charles Foster Kane

Joseph Cotten: Jonathan Leland

Dorothy Comingore: Susan Alexander Kane

Everett Sloane: Mr. Bernstein

Ray Collins: James W. Gettys

George Coulouris: Walter Parks Thatcher

Agnes Moorehead: Mary Kane

Paul Stewart: Raymond

Ruth Warrick: Emily Monroe Norton Kane

Erskine Sanford: Herbert Carter

William Alland: Jerry Thompson

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