Sei bello come Alain Delon!

- di: Claudia Loizzi
 

“Sei bello come Alain Delon” quante volte abbiamo sentito questa frase dai nostri nonni, dai nostri genitori e dai nostri amici?

Tante, quasi da diventare un classico topos, un luogo comune come espressione di bellezza.
Ma qual è la percezione delle nuove generazioni?
Quanti conoscono ancora quel nome che per noi è uno status?
La scomparsa del grande attore francese, oltre ad addolorarci molto, ci fa riflettere sullo scorrere del tempo e sul nostro linguaggio.
Ed è un modo per ricordarlo ancora con il sorriso, quel sorriso che tanti ha fatto innamorare.

Tutti vogliamo apparire giovani, o quanto meno cercare di dimostrare qualche anno in meno. Ci sono molte trappole che però sono in agguato a svelare la nostra vera età: i segni del tempo sul viso, rughe occhiaie e borse; la postura e il modo di camminare; il nostro modo di vestire; il colore dei capelli. Cose a cui teniamo in tutti i modi, a volte anche in maniera ridicola, ai limiti della tenerezza.

Ma c’è un aspetto in particolare a cui nessun chirurgo estetico, nessun fashion stylist, nessun fisioterapista può porre rimedio: il linguaggio.

Quando parliamo, la nostra vera età, il nostro substrato culturale pregno del nostro retaggio generazionale, affiora subdolo come gli scogli che fanno affondare le barche… in un attimo, nonostante i restyling costosi sopracitati, è capace di rimetterci al nostro posto senza sconti di tempo.

Certamente lo slang giovanile è il primo e più evidente segno di gap generazionale.

Mi riferisco a parole come Ghostare, Cringe, Shippare. Per alcuni di noi Ghost è associabile solo a un film romantico ai limiti del melenso, sempre se non ci si associa un’altra parolina Buster e allora sì che scendono le lacrime, ma di pura gioia.

Cringe ci suona come Grunge, ma allora si evocano i Nirvana, tutta un’altra musica, niente di più lontano dal termine che vuole indicare: imbarazzante.

Imbarazzante come quando un adulto si appropria di questi termini.

Shippare oggi non significa derubare qualcuno, ma quando due persone sono ben affiatate insieme, come in una relationship

Quindi non sono solo le parole che usano i giovani tra loro a distanziarci dal loro mondo quando noi adulti ce ne avvaliamo, ma anche qualcosa di più involontario mentre parliamo: i riferimenti culturali della nostra generazione.

Quando facciamo dei paragoni, quando ci esprimiamo con dei “modi di dire”, il nostro cervello va a cercare dei riferimenti che fanno parte del nostro mondo culturale di riferimento spazio e purtroppo pure temporale. E inevitabilmente ci identifica.

Nel mondo dello Sport, ci sono nomi che sono scolpiti nella nostra memoria, difficili da cancellare, sostituire e aggiornare: “ma quanto corri! E chi sei? Niky Lauda?”. Oggi un giovane non ha ben presente chi sia questo campione della Ferrari anni 70, al massimo la parola lauda gli potrà sembrare un riferimento biblico; quindi guardando i suoi occhi spenti, desidereremo aggiornarci e avvicinarci al suo mondo per farci capire e diremo: “chi sei Schumacher?”, e forse neanche questo grandissimo campione gli dirà più qualcosa.

Ma capita in tutti gli sport. Si gioca a tennis: “e chi sei? Panatta?” Meglio aggiornarsi: “chi sei? Canè, Nargiso?”. Sembrano più due nomi dei cartoni animati, invece erano dei grandi campioni anni 90. Allora per salvarci: “Chi sei Nadal?” Che ancora gioca, ma con lui si è quasi coetanei.

Poi passando al Cinema, ho citato il bello per eccellenza: Alain Delon.

Teniamo il passo con i tempi con Brad Pitt e George Clooney che si mantengono ancora vivaci e arzilli, magari a forza di caffè.

Forse il vero problema di aggiornare i nostri riferimenti va di pari passo alla nostra capacità di pronunciare questi nuovi nomi, tutti difficilissimi e non è il caso di fare brutte figure. Il bello di oggi al Cinema? “Timotee Chamalet, Chamalen, Chalamat”, ma improvvisamente affetti da mutismo selettivo, è un nome che si deve sostituire direttamente trovando la sua immagine su Google e mostrarla.

In bici, sei un grande, sembri Tadej Pogačar! Si pronuncia Pogaciar, perché ha un segno sulla C, che non è neanche indicato sulla tastiera del computer. Davvero difficile esultare gridando il suo nome: “Forza Pogačaaar!”.

Anche il nostro Jannik Sinner come nome non scherza, ma del resto quanto tempo ci abbiamo messo per pronunciare bene Novak Djokovic?

Ecco forse le difficoltà si appianano con il tempo, abituandoci alle novità, ai nuovi nomi, alle nuove parole…lasciarci il tempo di impararle, non sostituirle subito con delle nuove.

Non consumiamo le parole troppo in fretta, assaporiamole come in una sorta di slow word e poi lasciamole andare. Tutte tranne Timothée Chalamet, che sono 2 parole molto difficili, ma meritano attenzione.
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