Caos cremazioni: a Roma è complicato pure schiattare

- di: Barbara Leone
 
La morte è il riposo ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo, scrisse Cesare Pavese. E chissà quanto si sentono disturbate le oltre millecinquecento anime che a Roma attendono da mesi il definitivo congedo dalle umane spoglie per poter raggiungere in santa pace l’aldilà. E come glielo spieghi a queste povere anime che nell’aldiqua capitolino regna il caos più totale? E no. Non parliamo del traffico, delle buche e nemmeno dei cinghiali. Quella è roba terra terra. Parliamo delle cremazioni, argomento forse un po’ melanconico e cupo. Ma neanche tanto, visto che sono in tanti a desiderare d’esser cremati a trapasso avvenuto. Infondo c’è un che di romantico nel sapere che i tuoi resti mortali si tramutino in fuoco. Che è materia nobile, viva e discende dal sole. E lì ritorna, e noi con lei. Insomma, è tutto molto poetico, per quanto possa essere poetica sora morte. Ed anche ecologico. Ma soprattutto i cimiteri romani sono pieni zeppi all’inverosimile, roba che le spiagge riminesi d’agosto al confronto sembrano la pianura desertica del Colorado. E questo è molto meno poetico.

Ebbene a Roma, nella Capitale d’Italia ove tutto rema sempre contro il cittadino, è complicato pure schiattare. All’ombra del Colosseo, infatti, l’eterno riposo non è concesso. Perché se schiatti ti ibernano a tempo indeterminato fino a che non ti fanno la grazia di ridurti in cenere. All’inizio era il covid. Causa pandemia (che oramai è un po’ come il nero, sta bene su tutto) si era bloccata ogni cosa. Ora che l’emergenza sanitaria, vivaddio, volge al termine siamo da capo a dodici. E non si sa perché. Almeno due anni fa poteva avere un senso. Adesso no. Per un ignoto motivo, i tempi si allungano di mese in mese. Roba che tra un po’ ci vuole meno a fare un bambino che a mettere a nanna un de cuius. E così i defunti romani ne stanno lì, parcheggiati nei congelatori di Prima Porta senza poter fare niente. Ovvio, sono morti. Ma nulla possono fare nemmeno i vivi. Ovvero i familiari, che vorrebbero dare finalmente l’estremo saluto ai propri cari. E invece no. Restano appesi anche loro in questo limbo fatto di rimbalzi di responsabilità e sofismi burocratici. Che poi psicologicamente è una cosa devastante. Perché uno magari ha un padre, una madre, un fratello o, peggio ancora, un figlio cui vorrebbe dar pace ed il Comune di Roma ti dice: eh no, caro, mettiti in fila e aspetta.

Ma aspettare cosa? Che il cimitero di Prima Porta, dove si effettuano le operazioni, riesca a smaltire gli arretrati. Va tutto a rilento. E più rallenta, più le salme aumentano. L’impianto crematorio del Flaminio funziona solo su quattro linee perché da febbraio ci sono dei lavori di manutenzione che, se tutto va bene ma bene non andrà, si prolungheranno sino all’estate.

La Federazione del comparto funerario italiano dice che sì, di cremazioni ne fanno ma quaranta al giorno. Peccato però che poi ogni santo dì ne arrivano almeno sessanta di salme. Se la matematica non è un’opinione, si fa presto a capire che i conti non torneranno mai. L’attesa media è di un mese, che puntualmente si allunga a due e poi a tre. E nel frattempo la lista si allunga. Perché, guarda un po’, la gente c’ha pure sto brutto vizio di schiattare. E così giorno dopo giorno i tempi si dilatano ancora di più. Se poi i familiari, stremati da questa situazione oscena e surreale, decidono di portare il caro estinto fuori dal Comune di Roma gli tocca pure pagare: 220 euro. Di che? Di tasse. Proprio così: siccome stavamo scarsi a imposte, abbiamo pure la tassa per la cremazione fuori impianti che ora il Campidoglio, bontà sua, sta pensando di abolire. Ma ci sta solo pensando. Con comodo, senza fretta. Tanto non muore nessuno. Se non ci fosse da piangere, verrebbe quasi da ridere perché pare davvero una pagliacciata. Quelle che, parafrasando ‘A livella del grande Totò, “ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo à morte”.
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