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Visti come ricatto politico: Trump sfida e umilia l’Europa

- di: Jole Rosati
 
Visti come ricatto politico: Trump sfida e umilia l’Europa
La nuova stretta di Washington sui visti per chi lavora nella moderazione dei contenuti online non è più solo una politica migratoria: è un ricatto politico a tutto campo, che colpisce le piattaforme globali e manda un segnale diretto anche all’Europa.

Nel mirino finiscono moderatori, fact-checker, esperti di disinformazione e sicurezza digitale: figure centrali per l’ecosistema informativo mondiale, comprese le relazioni con l’Unione europea e con le sue normative sulla tutela degli utenti. La logica è brutale: se provi a porre limiti all’odio e alla manipolazione, puoi essere marchiato come censore e tenuto fuori dagli Stati Uniti.

Che cosa cambia con la nuova stretta sui visti

Il cuore della nuova politica è una serie di istruzioni ai consolati americani nel mondo. I funzionari sono invitati a scrutare il passato professionale dei richiedenti visti, a partire dai visti H-1B – lo strumento con cui le big tech reclutano molti dei loro talenti stranieri.

Nei dossier dei candidati non contano più solo titoli di studio e competenze tecniche, ma diventa decisivo se l’interessato abbia lavorato in:

  • content moderation, dalla rimozione di contenuti d’odio alle politiche contro la violenza;
  • fact-checking e verifiche sulle notizie false o fuorvianti;
  • trust & safety, cioè quei team che si occupano di sicurezza degli utenti, prevenzione di frodi, abusi e campagne coordinate di disinformazione;
  • attività legate alla gestione di mis- e disinformazione o alla compliance con regolamenti esteri sulle piattaforme online.

Chi viene considerato “responsabile o complice” di quella che Washington definisce “censura di espressioni protette” può essere dichiarato non idoneo al visto. Il controllo si estende anche ai profili social, che i candidati devono rendere pubblici, e agli eventuali interventi su media, conferenze e pubblicazioni.

Il messaggio è inequivocabile: se il tuo lavoro è far rispettare regole online, potresti non essere il benvenuto negli Stati Uniti.

Dalla ferita dei ban social al ricatto dei visti

La stretta non nasce nel vuoto. Affonda le radici nelle tensioni esplose quando, dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, più piattaforme sospesero l’allora presidente dagli spazi social. Da allora la narrativa della “censura dei conservatori” è diventata un pilastro della sua retorica politica.

Ogni scelta di moderazione – dall’etichettare contenuti fuorvianti sulle elezioni alla rimozione di incitamenti all’odio – è stata riletta come parte di un complotto politico delle big tech ai danni della destra americana. Oggi la risposta arriva su un terreno dove il potere dell’esecutivo è massimo: l’immigrazione.

Invece di scontrarsi direttamente con le piattaforme, la Casa Bianca interviene sui flussi di lavoratori stranieri, colpendo una delle leve che hanno reso la Silicon Valley un polo globale: la capacità di attrarre talenti da tutto il mondo, inclusi ingegneri e specialisti che lavorano proprio sulla qualità e sulla sicurezza delle conversazioni online.

L’immigrazione trasformata in leva di pressione

La campagna contro moderatori e fact-checker si inserisce in un quadro di inasprimento complessivo delle politiche migratorie legali: nuove tariffe altissime per i visti, verifiche più invasive, controlli aggiuntivi sui social e sulla vita professionale dei richiedenti.

Per le aziende tecnologiche, soprattutto quelle con una forte presenza di lavoratori stranieri, significa un rischio evidente: ogni scelta di moderazione potrebbe essere letta, a Washington, come prova di “censura” e diventare un boomerang per le loro politiche di reclutamento. La conseguenza è un potente effetto di raffreddamento: chi investirà davvero in strutture di sicurezza dei contenuti se questo può costare visti negati a interi team?

Per i professionisti che hanno costruito una carriera globale sulla gestione responsabile dei contenuti, il messaggio è altrettanto chiaro: difendere gli utenti può trasformarsi in un handicap quando si chiede un visto americano.

Perché l’Europa è nel mirino, anche senza essere nominata

Ufficialmente la nuova dottrina è rivolta a chi, secondo Washington, limita la libertà di espressione degli americani. In pratica, però, l’eco arriva forte fino a Bruxelles, Strasburgo e alle capitali europee.

L’Europa ha costruito negli ultimi anni un complesso impianto normativo – dal Digital Services Act ai regolamenti sulle piattaforme – che chiede alle big tech di intervenire attivamente contro odio, disinformazione e rischi sistemici. In molti casi ciò significa imporre obblighi di moderazione stringenti, con sanzioni per chi non rimuove contenuti illegali o pericolosi.

La nuova linea americana crea una tensione evidente: una stessa piattaforma potrebbe essere costretta, in Europa, a rafforzare la moderazione per rispettare le leggi dell’Unione, e contemporaneamente guardare con timore a Washington, dove quelle stesse attività vengono dipinte come “censura” da punire con l’arma dei visti.

Il rischio è un conflitto normativo transatlantico: da un lato l’UE che pretende più responsabilità dalle piattaforme, dall’altro gli Stati Uniti che premiano chi lascia correre e colpiscono chi filtra. In mezzo, le aziende e i lavoratori, costretti a scegliere quale minaccia temere di più: le multe europee o i visti americani negati.

Le voci di chi lavora nella sicurezza online

Tra i primi a reagire ci sono i professionisti della sicurezza digitale e della moderazione dei contenuti. Molti ricordano che trust & safety non significa soltanto decidere cosa è lecito dire su un candidato o su un referendum, ma anche:

  • fermare la circolazione di materiale pedopornografico;
  • contrastare frodi, truffe, estorsioni e campagne di hate speech organizzate;
  • bloccare contenuti che incitano alla violenza offline;
  • proteggere utenti vulnerabili e minoranze bersaglio di campagne coordinate.

Per chi lavora in questo settore, la nuova politica manda un messaggio paradossale: “Più ti impegni a rendere la rete un luogo sicuro, più rischi di essere bollato come censore”, osservano diversi esperti del settore.

Giuristi e studiosi della libertà di espressione sottolineano anche un altro aspetto: la moderazione non è il contrario della libertà di parola, ma uno degli strumenti per garantirla, impedendo che lo spazio pubblico venga saturato da contenuti illegali, violenti o manipolatori che, di fatto, zittiscono le voci più deboli.

L’arma dei visti e la nuova geografia dei talenti

La stretta sui visti si somma all’aumento dei costi di accesso al sistema americano. Con tariffe più alte, controlli più aggressivi e l’ombra costante dell’accusa di “censura”, il mercato globale dei talenti può spostarsi altrove.

L’Europa, il Regno Unito, il Canada e diversi hub asiatici potrebbero diventare ancora più attrattivi per chi lavora nella moderazione, nella sicurezza dei contenuti e nella lotta alla disinformazione. È un settore in cui le competenze sono rare e in cui la domanda – tra elezioni, guerre ibride e campagne di propaganda online – è destinata a crescere.

Se Washington chiude la porta a chi ha costruito la propria carriera su questi temi, è plausibile che altri centri tecnologici cerchino di catturare questo capitale umano, offrendo visti più stabili e un quadro regolatorio più coerente con l’idea che sicurezza e libertà di espressione possano convivere.

Il bivio per le piattaforme globali

Per le grandi piattaforme, la nuova dottrina americana rappresenta un bivio strategico. Da un lato, la spinta a ridurre o “ammorbidire” la moderazione per non irritare Washington e per non mettere a rischio i visti di interi team. Dall’altro, l’obbligo – soprattutto in Europa – di aumentare gli sforzi per contenere odio, violenza e disinformazione.

La tentazione di ricorrere a soluzioni di facciata è forte: politiche di moderazione scritte sulla carta ma applicate con il minimo sforzo, algoritmi che lasciano circolare contenuti borderline finché non scoppia lo scandalo, esternalizzazione massiccia del lavoro di controllo in paesi terzi per “schermare” i team chiave dai rischi di visti negati.

In questo scenario, a pagare il prezzo più alto rischiano di essere gli utenti: meno protezione dagli abusi, più esposizione alla propaganda, più fatica nel distinguere ciò che è vero da ciò che è costruito per manipolare.

Libertà di espressione o libertà di impunità?

La retorica ufficiale incornicia la svolta come una difesa dei cittadini americani da interferenze straniere nella loro libertà di parola. Ma la domanda di fondo è un’altra: si sta difendendo la libertà di espressione o la libertà di impunità di chi usa la rete per diffondere odio, menzogne e campagne di manipolazione?

Trasformare i visti in un bastone contro chi prova a governare questi fenomeni significa, di fatto, scoraggiare le forme più strutturate di responsabilità digitale. E inviare un segnale potente: chi difende regole e standard di sicurezza rischia più di chi li calpesta.

In un’epoca in cui le democrazie sono sotto pressione da campagne di disinformazione organizzate, la scelta di colpire proprio coloro che cercano di contenerle appare una scommessa ad altissimo rischio – per gli Stati Uniti, per l’ecosistema digitale e per l’Europa, che ancora una volta si ritrova nel mirino senza essere nominata.

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