Videogiochi: in Italia è Game Over

- di: Barbara Bizzarri
 
Volete lavorare in Italia nel settore dei videogiochi? La musica (è il caso di dirlo) non cambia e anche in questo caso tocca fare il triste valigino ed espatriare: lo confermano i professionisti del gaming, che dopo aver chiuso il primo ciclo di studi nella Penisola e aver trovato qui i primi contratti part-time, sempre di più scelgono un futuro all’estero, e lo chiarisce la ricerca “Italian Game Devs Abroad”, presentata alla sesta edizione del Video Game Lab, il festival italiano dei videogiochi che si è tenuto dal 25 al 28 gennaio all’Auditorium Parco della Musica.

Videogiochi: in Italia è Game Over

La destinazione preferita dagli sviluppatori autoctoni, secondo il sondaggio effettuato su un campione di oltre 100 professionisti italiani che lavorano in più di 80 aziende distribuite in 18 Paesi, sarebbe il Regno Unito, cui seguono Svezia e Spagna. Nel settore abbondano i giovani professionisti, tanto che il 56% ha meno di 36 anni, meglio se in possesso almeno di una laurea triennale, ottenuta nel 78% dei casi proprio qui, in linea con il noto costume per cui l’Italia, in linea di massima, fornisce un’ottima preparazione di cui poi beneficiano altri Paesi. Per quanto riguarda il curriculum, il 65% dei professionisti che hanno trovato lavoro oltreconfine avevano già avuto un impiego in almeno altre tre società, considerando però che si tratta di un settore a turnover elevato, ma ben tre quarti di questo 65% hanno trovato soltanto all’estero il loro primo contratto a tempo indeterminato.

Il 71% degli expats per amor di videogioco sarebbe disposto a tornare in Italia a fronte di condizioni lavorative più favorevoli, ovvero stipendi più alti, possibilità di lavorare in smart working e una tassazione agevolata per le startup. Numeri interessanti, anche se nel frattempo una massiccia ondata di licenziamenti ha investito il settore: pochi giorni fa Microsoft ha mandato via 1900 impiegati, circa il 9% della divisione dedicata ai videogames, Microsoft Gaming, in particolare Activision Blizzard, acquistata da Microsoft per la cifra record di 69 miliardi di dollari, e il team Xbox; Riot Games, produttore del gioco online League of Legends, ha dichiarato che taglierà circa l’11% della sua forza lavoro. Twitch, nota piattaforma di streaming a cui oggi si appoggiano tantissimi gamer, è pronta a mandare a casa il 35% dell’organico. Discord, altra piattaforma social molto nota fra i giocatori, ridurrà del 18% i suoi dipendenti, e Unity Software, che fornisce soluzioni software per sviluppatori di giochi, ha dichiarato che taglierà un quarto del suo personale, per un totale di 1.800 posti di lavoro.

Il portale Video Games Layoffs fa sapere che solo a gennaio nell’intero settore sono state licenziate 5.670 persone, più del 50% rispetto all’intero 2023, anno in cui circa 10.500 lavoratori dell’industria videoludica sono stati rispediti a casa: si tratta, almeno in parte, delle conseguenze della crisi che ha investito la Silicon Valley, che dall’autunno 2022 continua a farsi sentire anche nell’industria del gaming. Gli Studios avevano scommesso sullo stesso livello di domanda del mercato pandemico, aumentando investimenti e assunzioni, per poi realizzare che, non più costretti in casa, i consumatori avevano dirottato i loro soldi altrove. Per quanto riguarda il caso specifico della Bay Area, dove sono concentrate molte case di sviluppo, c’è anche da considerare il vertiginoso aumento dei tassi di interesse sui prestiti. Le grandi aziende con elevati costi operativi, che annoverano anche le più importanti società videoludiche, solitamente lavorano richiedendo grossi prestiti che saldano poi di mese in mese. Nel tentativo di ridurre un’inflazione che ha raggiunto il suo picco più alto da quarant’anni a questa parte, la Federal Reserve, ovvero la Banca Centrale Americana, ha costantemente rialzato i tassi per tutto il 2023 ma, in questo modo, ha anche aumentato a dismisura il debito mensile di aziende che già avevano reinvestito, in tutto o in parte, i guadagni del boom pandemico e che di conseguenza sono rimaste senza capitale disponibile per pagare uffici e dipendenti. Difficile prevedere l’impatto che quest’ondata di licenziamenti avrà sull’industria, ancor di più in un anno che, dopo un 2023 ricco di titoli di successo, si prospetta più lento del solito: non ci si può che augurare che l’emorragia si arresti.

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