Unicredit taglia partecipazioni e dipendenti, incrinando la fiducia sull'Istituto

 
L'immagine sopra di tutto, al di là di tutto. Il mantra che ha fatto la fortuna dei pubblicitari è sempre lo stesso, e non da ora. Apparire, piuttosto che essere, mette sul momento al riparo da tante cose, come, ad esempio, critiche, dubbi o timori, magari sulla reale condizione (soprattutto economica) di chi ti sorride da cartelloni e brochures, di chi ti dice '''fidati di me, sono il migliore, affida a me le tue speranze perché io non ti ho mai tradito''.

Prendiamo Unicredit.
In questo momento il colosso italiano di banche, sportelli, mutui e prestiti non vive un gran bel momento, ma nonostante tutto riesce ad accreditarsi come un soggetto al quale continuare a dare fiducia. Ma soffermiamoci a pensare non solo come clienti o partner, ma come elementi della grande famiglia dei dipendenti Unicredit, che da anni non sanno bene cosa siano (pedine, asset, carne da cannone) e soprattutto non hanno la più pallida idea (oppure ce l'hanno, eccome) su quello che sarà il loro futuro, nel breve e nel medio periodo - al lungo non ci pensano nemmeno -.

Ci sarebbe da chiedere se una grande banca, come Unicredit si ritiene e come in effetti è, rimanga tale non generando più fiducia nei suoi confronti per quanto riguarda le prospettive.
Di certo, il quadro generale della banca non è che dia grandissime garanzie non di solidità, quella resta, quanto di una strategia che sappia contrastare i gravissimi problemi del passato. Vedi la ricapitalizzazione da 13 miliardi di euro resa necessaria dalla piaga dell'inesigibilità di molti crediti.

Sono cose che, nella vita di un istituto di credito, possono manifestarsi, a causa di contingenze sfavorevoli o, purtroppo, di carenze nella organizzazione e pianificazione delle attività. Ma continuare a vantare e vantarsi alla fine può dimostrarsi pernicioso non tanto per la solidità di Unicredit, quando per fiducia che reclama.
Un parametro di giudizio potrebbe essere quello relativo alle cessioni di importanti attività.

Si dirà che cedere Fineco, una importante quota in Mediobanca, una sostanziosa partecipazione in Turchia siano pedine - quindi sacrificabili - su uno scacchiere ben più grande. Ma l'immagine che se ne trae non è certo più quella di un solido istituto, capace di dettare tempi e modi al mondo bancario italiano ed anche internazionale.
Intanto, però, le crudeli cure dimagranti imposte al personale sono lì, sotto gli occhi di tutti e non depongono certo bene per una banca che, sino a ieri l'altro, era una madre e che oggi appare come matrigna, se non peggio.

Perdere per strada ottomila dipendenti e perderne, in particolare, seimila in Italia per qualcuno può essere il tassello di una riorganizzazione aziendale, per molti il segnale di una crescita che è stata fortissimamente voluta e che, alla fine, s'è capito non essere sostenibile.

Ci sarebbe da interrogarsi su cosa ne pensino i detentori di porzioni del capitale, per il 65 per cento investitori istituzionali. Se cioè assisteranno, magari soltanto chiedendo chiarimenti in sede di assemblea degli azionisti, oppure vorranno partecipare, ma nel senso più totale del termine. Magari chiedendosi se è normale che il naturale competitor sul panorama italiano, IntesaSanPaolo, stia reagendo meglio alla crisi.
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