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Trump, nuovi insulti: la spirale che avvelena la politica

- di: Marta Giannoni
 
Trump, nuovi insulti: la spirale che avvelena la politica

Dal governatore “ritardato” ai giornalisti “incapaci”: perché le parole del presidente non sono solo provocazioni.

A bordo dell’Air Force One, nel ritorno verso Washington dopo il weekend del Ringraziamento, Donald Trump ha scelto ancora una volta la via dell’insulto. Di fronte alle domande dei giornalisti, il presidente ha ribadito l’attacco al governatore del Minnesota, Tim Walz, definendolo con un termine che colpisce direttamente le persone con disabilità intellettive. Non si è trattato di una gaffe isolata, ma dell’ennesimo tassello di un linguaggio sistematicamente aggressivo e discriminatorio, rivolto contro avversari politici e stampa.

Il bersaglio Tim Walz e l’insulto che non dovrebbe più esistere

L’origine dell’ultima polemica risale a un lungo sfogo sui social nel Giorno del Ringraziamento, in cui Trump ha attaccato Walz e la comunità somala del Minnesota utilizzando un termine ormai bandito dal linguaggio pubblico per il suo carattere ferocemente offensivo verso le persone con disabilità. Nei giorni successivi, invece di fare marcia indietro, il presidente ha rilanciato la stessa parola a bordo dell’aereo presidenziale, aggiungendo che in Walz ci sarebbe “qualcosa che non va”.

Il governatore non ha scelto la vittima silenziosa. In un’intervista televisiva ha rovesciato l’attacco, spiegando che considera quell’insulto quasi un “onore” politico, ma ricordando quanto sia doloroso e dannoso per famiglie e studenti con disabilità. Walz ha sottolineato che nelle scuole americane si è lavorato per decenni per estirpare quella parola dal linguaggio comune, proprio per proteggerne la dignità: “I ragazzi sanno che non si parla così. E invece il presidente sta normalizzando questo tipo di comportamento odioso”, ha avvertito, attribuendo a Trump la responsabilità di sdoganare espressioni che tanti pensavano consegnate al passato.

Nel frattempo, l’epiteto usato per Walz è entrato a pieno titolo nella lunga lista di soprannomi e offese che Trump appiccica ai suoi avversari. In quella lista, accanto a sfottò più o meno folcloristici, spiccano formule che sforano apertamente nel disprezzo verso minoranze, avversari politici e perfino alleati di partito. Il caso di Walz è solo l’ultimo, ma colpisce perché va a colpire in modo diretto una comunità già fragile: quella delle persone con disabilità e delle loro famiglie.

Quando l’offesa diventa badge of honor… ma ferisce i più vulnerabili

Di fronte allo slur, Walz ha replicato con una strategia precisa: trasformare l’attacco in un boomerang. Il governatore ha definito le parole del presidente una sorta di “distintivo d’onore” in politica, proprio perché mostrerebbero la debolezza dell’avversario. Ma nella stessa frase ha ricordato che per migliaia di genitori, insegnanti e studenti quella parola non è un gioco: è il ricordo di anni di bullismo, umiliazioni e discriminazioni.

In parallelo, Walz ha rilanciato il tema della salute del presidente, invitandolo a rendere pubblici gli esiti della recente risonanza magnetica effettuata in ottobre in un ospedale militare. La provocazione è calcolata, ma si appoggia su un punto politico: se il capo della Casa Bianca usa l’insulto per mettere in dubbio la capacità di giudizio degli altri, è legittimo chiedere trasparenza sulla sua stessa condizione fisica e cognitiva.

“Ho preso il voto perfetto”: il feticcio del test cognitivo

Nel dialogo con i reporter a bordo dell’aereo, Trump ha collegato l’episodio della risonanza magnetica a un altro suo cavallo di battaglia: il famoso test cognitivo sostenuto in precedenza. Parlando con un giornalista che gli chiedeva dettagli sull’esame, il presidente ha rivendicato di aver ottenuto un risultato impeccabile: “Ho fatto un test cognitivo e l’ho superato, ho preso un voto perfetto, cosa che tu non saresti in grado di fare”, ha detto, puntando il dito contro il cronista e trasformando un controllo medico in un’arma per umiliare chi lo incalzava con le domande.

La scena è rivelatrice di un modello comunicativo ormai rodato. Ogni occasione è buona per ribadire la narrativa del leader infallibile, che usa la medicina come certificato di superiorità e delegittima la stampa come intellettualmente inadeguata. Anche la risonanza magnetica, di cui lo stesso presidente ha ammesso di non sapere nemmeno quale parte del corpo fosse stata esaminata, diventa materiale da slogan: se serve a mostrarsi imbattibile, i fatti clinici passano in secondo piano.

Il tiro al bersaglio contro i giornalisti

La conversazione sull’MRI è stata l’ennesimo episodio di un rapporto ormai tossico con la stampa. Nel giro di pochi giorni, Trump ha collezionato insulti personali contro diverse reporter: la giornalista “stupida” perché insista con le domande scomode, quella “brutta dentro e fuori” perché racconta la Casa Bianca senza reverenza, la cronista apostrofata “quiet, piggy” mentre tenta di parlare di un dossier esplosivo.

Sul volo di ritorno dal weekend festivo, il copione si è ripetuto. A una cronista che chiedeva chiarimenti sull’esame medico, Trump ha risposto con sufficienza, tornando ancora al suo test cognitivo: “L’ho superato alla perfezione, tu non saresti capace”. Poi, rivolgendosi a un altro giornalista, ha aggiunto un secondo affondo, allargando il cerchio della delegittimazione. La conferenza stampa, invece di essere un momento di trasparenza sullo stato di salute del presidente, si è trasformata in un numero di bullismo verbale.

Non si tratta più solo di conflitti tra potere politico e media. In questo schema comunicativo, il giornalista diventa il nemico interno, da ridicolizzare di fronte all’opinione pubblica: grasso, brutto, stupido, moralmente corrotto. È un copione funzionale a chi vuole ridurre ogni critica a complotto personale, svuotando di credibilità il lavoro di chi verifica i fatti.

Un presidente che normalizza l’odio

L’episodio Walz e la raffica di attacchi alle reporter non sono incidenti isolati, ma il sintomo di una deriva più profonda. Nel momento in cui il numero uno della Casa Bianca usa in pubblico un insulto che la società civile ha impiegato decenni per estirpare dalle aule scolastiche, manda un messaggio potente: ciò che era considerato inaccettabile torna improvvisamente ammissibile.

Nelle parole di Walz e di molti osservatori, il rischio è chiarissimo: normalizzare l’odio significa aprire la strada a una politica in cui non si discute più di programmi, ma si colpiscono le persone, la loro identità, il loro corpo, la loro salute. Se un presidente definisce “ritardato” un avversario eletto da milioni di cittadini e insulta in modo personale chi fa domande scomode, il segnale che arriva a chi lo ascolta è che l’insulto è un’arma legittima, perfino desiderabile.

Disabilità, migranti, stampa: i bersagli ricorrenti

Non è un caso che il linguaggio più violento si concentri su tre bersagli ricorrenti. Da un lato, le persone con disabilità, evocate con termini derisori per screditare gli avversari politici. Dall’altro, le minoranze e i migranti, come nel caso dei somali del Minnesota dipinti come “invasori” senza che i dati supportino lo scenario apocalittico evocato. Infine, i giornalisti, trasformati in comparse da zittire o ridicolizzare.

È una triangolazione pericolosa: chi ha meno potere nella società – disabili, minoranze, lavoratori dell’informazione sottopagati e spesso esposti alle minacce online – diventa materiale da insulto da parte dell’uomo più potente del Paese. Quando questo schema si ripete, il messaggio implicito è che alcune vite valgono meno, alcune voci possono essere schiacciate.

Il costo democratico del linguaggio d’odio

C’è poi il costo istituzionale. In una democrazia, il conflitto politico è fisiologico, persino salutare. Ma presuppone che i contendenti riconoscano all’altro un minimo di legittimità. Se il dibattito scivola nella caricatura permanente – l’avversario ridotto al “ritardato”, la reporter alla “stupida” che non capisce niente – si erode il terreno comune su cui dovrebbe poggiare qualsiasi confronto democratico.

Il problema non è il “politicamente corretto”, ma la banalizzazione sistematica dell’offesa, spacciata per sincerità o per folklore. In realtà è una strategia calcolata: esasperare il linguaggio per dividere il Paese, costringere tutti a schierarsi pro o contro il leader, spostare l’attenzione dai dossier concreti (sanità, economia, diritti civili) a un’eterna rissa di parole.

Walz, le famiglie e chi rifiuta di abbassare l’asticella

Nonostante la violenza verbale, nell’America che reagisce alle parole del presidente si vede un’altra dinamica. Walz insiste sul fatto che le famiglie con figli con disabilità non vogliono sentirsi compatite, ma rispettate; che le scuole hanno fatto passi avanti proprio perché si è deciso, tutti insieme, che certi termini non si usano più. E molti genitori, insegnanti, attivisti lo seguono in questa linea: non accettare di abbassare l’asticella del dibattito pubblico solo perché chi sta al vertice ha scelto di farlo.

Il governatore del Minnesota non è l’unico a lanciare l’allarme. Organizzazioni che rappresentano persone con disabilità, associazioni per i diritti civili, gruppi di giornalisti denunciano da tempo una escalation di minacce e insulti online che spesso citano, riprendono o amplificano proprio le frasi usate dal presidente. Il confine tra la battuta e l’incitamento è più sottile di quanto appaia.

Un test che la politica non può permettersi di fallire

Trump ama ripetere di aver “superato alla perfezione” il suo test cognitivo. Ma oggi il vero esame non è quello di un questionario clinico: è la capacità della politica, dei media e dei cittadini di resistere alla tentazione di scivolare nello stesso linguaggio. Walz e chi rifiuta la logica dell’odio ricordano che il potere non può permettersi il lusso di normalizzare insulti che la società aveva faticosamente messo da parte.

Alla fine, la domanda che resta sospesa non riguarda solo il presidente, ma l’intero sistema politico: quanto ancora si può tollerare che la massima carica istituzionale trasformi ogni dissenso in un’occasione di aggressione personale? La risposta, qualunque essa sia, dirà molto sullo stato di salute – questa volta non misurato da un’MRI – della democrazia americana.

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