Dal j’accuse sulle “nazioni decadenti” al paragone di Zelensky con Barnum, passando per l’affondo su Sadiq Khan: lo strappo con l’Europa mentre i mercati restano appesi alla Fed.
Nello stesso giorno in cui, alla Casa Bianca, annunciava un maxi piano da 12 miliardi di dollari di aiuti per gli agricoltori americani, Donald Trump ha lanciato un attacco frontale all’Europa e alla leadership ucraina. In una lunga intervista a Politico, il presidente statunitense ha descritto il Vecchio Continente come un gruppo di nazioni “in decadenza”, guidate da leader “deboli” e paralizzate dal politically correct, incapaci di gestire i flussi migratori e di fermare la guerra tra Russia e Ucraina.
“Parlano molto e producono poco”, riassume Trump, convinto che senza la sua rielezione nel 2024 il conflitto in Ucraina sarebbe già potuto degenerare in una Terza guerra mondiale. È una narrazione che ribalta i ruoli tradizionali: l’Unione europea da alleato strategico si trasforma nel bersaglio preferito del capo della Casa Bianca, accusata di non essere in grado né di difendere i propri confini, né di influenzare davvero il tavolo negoziale con Mosca.
“Nazioni decadenti” e “leader deboli”: l’Europa sotto accusa
Nell’intervista Trump non risparmia nessuno. L’Europa viene dipinta come un continente decadente, “corroso” dall’immigrazione e da classi dirigenti troppo preoccupate di non urtare sensibilità per agire in modo deciso. I leader europei, dice il presidente, “non sanno cosa fare”,
e la guerra in Ucraina – che definisce “il problema più urgente per l’Europa” – ne sarebbe la prova: “parlano, ma non producono risultati, e la guerra continua ad andare avanti”.
Trump rivendica di conoscere “molto bene” i capi di governo europei: li divide fra “buoni leader” e “cattivi leader”, fra “intelligenti” e “stupidi”, spingendosi a dire che ce ne sono alcuni “davvero stupidi” che non stanno facendo “un buon lavoro” né sulle frontiere, né sull’ordine interno. A contrappunto, esalta gli alleati a lui più affini, a partire dall’ungherese Viktor Orbán, che cita come esempio di fermezza e di linea dura sull’immigrazione.
Il presidente annuncia esplicitamente di voler sostenere candidati politici in Europa che condividano la sua visione, anche a costo di incrinare i rapporti con i governi attuali. L’obiettivo dichiarato è spostare a destra l’asse politico europeo, puntando su partiti nazionalisti e sovranisti in grado – secondo lui – di “ripristinare forza e identità” dei singoli Stati.
L’attacco a Londra e il caso Sadiq Khan
Nel mirino finisce in particolare il Regno Unito, ma non tanto Downing Street quanto il sindaco della capitale.
Trump descrive Londra e Parigi come città che “scricchiolano” sotto il peso delle migrazioni dal Medio Oriente e dall’Africa e si scaglia contro il sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan, definito un “disastro”.
Secondo il presidente, Khan sarebbe stato eletto (e rieletto) perché “sono arrivate così tante persone” che ora “votano per lui”: una lettura che lega direttamente il consenso politico ai flussi migratori.
Il giudizio su Khan non è nuovo – la loro faida dura da anni – ma l’affondo di queste ore lo inserisce in un quadro più ampio: Trump lo usa come simbolo di un’Europa che, a suo dire, ha rinunciato a controllare le proprie frontiere e ha “consegnato le sue città” a classi dirigenti troppo morbide sull’immigrazione e sulla sicurezza urbana.
Da Londra il governo britannico evita lo scontro diretto con la Casa Bianca e si limita a ribadire l’impegno su sanzioni e aiuti all’Ucraina, mentre ambienti governativi fanno filtrare che “la cooperazione transatlantica non si misura dai giudizi personali su un sindaco”.
Il sindaco Khan, da parte sua, replica accusando Trump di “cercare capri espiatori all’estero per problemi che ha creato negli Stati Uniti”.
Bruxelles rilancia: “Orgogliosi dei nostri leader”
Di segno opposto la risposta dell’Unione europea. Interpellata durante il briefing quotidiano, la portavoce della Commissione Paula Pinho evita il corpo a corpo diretto ma manda un segnale netto: a Bruxelles, assicura, si è “molto orgogliosi e grati di avere leader eccellenti”, a partire dalla presidente Ursula von der Leyen.
L’idea che l’Europa sia un blocco “marcio e decadente”, come suggerito da Trump, viene respinta come una caricatura.
Dietro le formule diplomatiche c’è una preoccupazione politica precisa: la consapevolezza che le parole della Casa Bianca possono alimentare i partiti che, dentro l’Unione, puntano a indebolire il progetto europeo. Non a caso, da Berlino a Roma diversi leader nazionali sottolineano che è proprio l’Europa a farsi carico della quota maggiore di aiuti economici e militari a Kiev, oltre che dell’accoglienza di milioni di profughi.
Zelensky, la guerra e il paragone con P. T. Barnum
Il cuore più esplosivo dell’intervista riguarda l’Ucraina. Per Trump, è ora che il presidente Volodymyr Zelensky “si dia una mossa e inizi ad accettare le cose”, perché “quando stai perdendo devi accettare la realtà”.
Secondo il presidente americano, la Russia è un Paese “molto grande” e questa guerra “non sarebbe mai dovuta accadere”; ora Kiev starebbe semplicemente “perdendo terreno”.
Trump sostiene anche che l’Ucraina stia usando il conflitto come pretesto per non tornare al voto.
Pur ammettendo di non sapere chi vincerebbe, insiste sul principio che “il popolo ucraino dovrebbe poter scegliere il proprio leader”.
La critica ignora però un dato fondamentale: la legge marziale e la Costituzione ucraina vietano di tenere elezioni nazionali mentre il Paese è sotto attacco,
e il parlamento di Kiev ha prorogato questo regime proprio per garantire la continuità dei poteri in tempo di guerra.
Sul piano della pace, Trump insiste sulla necessità di un accordo rapido e lascia intendere che esso debba passare per concessioni territoriali da parte di Kiev.
In più occasioni ha detto che l’Ucraina ha “perso molto territorio, e territorio buono”, e che quindi parlare di “vittoria” è fuori dalla realtà. Zelensky, invece, continua a ripetere – anche nelle sue ultime missioni in Europa – che nessun piano di pace può prevedere cessioni formali di territorio a Mosca.
Da qui il paragone più velenoso. Trump descrive Zelensky come una sorta di P. T. Barnum della politica: un showman in grado di “vendere qualsiasi cosa in qualsiasi momento”.
Lo chiama esplicitamente “P. T. Barnum” e sostiene che questa capacità di “piazzista” gli avrebbe permesso di convincere il “disonesto Joe Biden” a concedergli 350 miliardi di dollari di aiuti, pur avendo poi “perso circa il 25% del suo Paese”.
In passato lo aveva già definito “il miglior venditore sulla terra”; ora il paragone viene rilanciato con toni ancora più aggressivi.
NATO, pace e accuse sull’ingresso mai promesso
Nell’intervista Trump torna anche sul nodo dell’<strong’ingresso>.
Secondo la sua ricostruzione, “è sempre stato così, molto prima di Putin”: cioè, ci sarebbe stato un accordo implicito perché Kiev non entrasse mai nell’Alleanza, e solo in tempi recenti l’Occidente avrebbe iniziato a “insistere” su questo punto, irritando il Cremlino.
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Si tratta di una versione che contrasta sia con i documenti ufficiali dell’Alleanza, sia con la narrativa ucraina ed europea, secondo cui la porta della NATO è rimasta formalmente aperta fin dal vertice di Bucarest del 2008, pur senza una roadmap concreta.
È proprio su questo terreno – adesione alla NATO e status dei territori occupati – che si gioca oggi il braccio di ferro intorno al piano di pace promosso dagli Stati Uniti e contestato da Kiev, perché percepito come troppo vicino alle richieste di Mosca.
Zelensky, nelle ultime dichiarazioni rilasciate a Londra e Bruxelles, ha ribadito che l’Ucraina “non ha il diritto morale né legale di regalare territori” e che qualsiasi accordo dovrà includere garanzie di sicurezza vincolanti.
In questo quadro, l’accusa di Trump – secondo cui Kiev starebbe rifiutando un buon compromesso per orgoglio o calcolo politico – viene letta in Ucraina come un tentativo di scaricare sulla vittima le responsabilità dell’aggressore.
Mosca applaude, l’Est si spacca
Dall’altra parte del fronte, Mosca applaude.
Il capo del Fondo russo per gli investimenti diretti, Kirill Dmitriev, rilancia sui social i passaggi dell’intervista,
parlando di “verità dette finalmente a voce alta” sui leader europei.
Media vicini al Cremlino usano le parole di Trump per raccontare un’Europa “marcia”, lacerata da divisioni interne e incapace di tenere una linea comune sulla guerra.
Nello spazio post-sovietico e nell’Europa centrale, le reazioni sono miste.
Alcuni leader populisti e filorussi salutano il discorso di Trump come la conferma che “anche in America qualcuno ha capito l’errore di sostenere troppo l’Ucraina”.
Altri governi – da Varsavia a Vilnius – ribadiscono invece che, se Kiev venisse lasciata sola, il rischio sarebbe un’espansione del conflitto più vicino ai confini della NATO.
La partita interna negli Usa: agricoltori, tariffe e nuova dottrina
La durezza verso Europa e Ucraina si inserisce anche nel contesto interno americano.
Alla vigilia dell’intervista, Trump ha presentato alla Casa Bianca un pacchetto da 12 miliardi di dollari per sostenere gli agricoltori statunitensi colpiti dalla guerra commerciale con la Cina e dalla volatilità dei prezzi delle materie prime.
Si tratta di “bridge payments” gestiti dal Dipartimento dell’Agricoltura come ammortizzatore temporaneo, finanziati in parte con i proventi dei dazi e con risorse già stanziate in bilancio.
Di fatto, Trump parla agli agricoltori del Midwest, una delle sue basi elettorali più solide, promettendo da un lato protezione contro la concorrenza estera e dall’altro un ritorno a un ordine internazionale in cui gli Stati Uniti non si “fanno carico dei problemi europei”.
La nuova strategia di sicurezza nazionale, presentata nelle scorse settimane, sposta l’attenzione dalle minacce tradizionali come la Russia verso il contenimento dell’immigrazione e il contenimento dei costi delle alleanze.
Democratici e alleati Usa: “Così si mina il fronte ucraino”
Negli Stati Uniti, i democratici accusano il presidente di minare simultaneamente gli alleati europei e la resistenza ucraina.
Parlamentari come il senatore Chris Coons e il deputato Adam Smith avvertono che descrivere pubblicamente Kiev come “perdente” e i leader europei come “deboli” alimenta la narrativa russa e rende più difficile mantenere il sostegno dell’opinione pubblica occidentale.
Anche una parte del mondo repubblicano tradizionalmente atlantista guarda con inquietudine alla svolta.
Ex funzionari e analisti vicini alla NATO ricordano che è stata proprio l’unità tra Stati Uniti ed Europa a contenere i rischi di escalation nucleare nel primo anno di guerra, e temono che la nuova linea della Casa Bianca apra la strada a compromessi al ribasso che non garantiscono né la sicurezza dell’Ucraina, né quella dei vicini europei. Al di là delle parole al vetriolo, il nodo è semplice: Trump vuole chiudere rapidamente la guerra in Ucraina, anche al prezzo di un accordo che sancisca la perdita di una parte dei territori occupati, e considera gli europei un ostacolo perché insistono su principi di integrità territoriale e di “pace giusta”.
Per l’Europa, invece, cedere su questi punti significherebbe aprire la porta a una stagione in cui i confini possono essere ridisegnati con la forza.
Per Zelensky la sfida è doppia: tenere insieme la resistenza militare, la legittimità democratica in un Paese in legge marziale e il sostegno di alleati sempre più divisi fra chi spinge per il compromesso e chi difende la linea del “nessun cedimento”.
In questo equilibrio precario, ogni frase che esce dalla Casa Bianca pesa più dei movimenti quotidiani dei mercati: oggi relativamente tranquilli, concentrati sulla Fed, ma sempre pronti a reagire se lo scontro politico dovesse trasformarsi in un vero strappo strategico tra Washington e l’Europa.