La firma che cambia la partita: investitori “a stelle e strisce”, Oracle in cabina di sicurezza, ByteDance sotto il 20%. Ma la domanda resta la stessa: chi comanda davvero sull’algoritmo?
La notizia che chiude una saga (quasi) infinita
TikTok ha messo nero su bianco: accordi firmati per trasferire la propria attività negli Stati Uniti dentro una nuova entità
strutturata come joint venture e controllata da investitori americani. A raccontarlo, il 18 dicembre 2025, è Axios, citando un memo interno
inviato dall’amministratore delegato Shou Zi Chew, con una data cerchiata in rosso: closing previsto entro il 22 gennaio 2026.
Il senso politico dell’operazione è semplice: disinnescare l’ordigno “divest-or-ban”, cioè l’aut aut statunitense:
o TikTok passa sotto controllo domestico, oppure rischia di sparire dagli store e di perdere i servizi essenziali per funzionare.
Come nasce la nuova TikTok “americana”
Secondo Reuters e The Verge, la nuova struttura è stata disegnata per mettere in sicurezza tre nervi scoperti:
dati, software e algoritmo. La joint venture – indicata da più ricostruzioni come una società dedicata alle operazioni USA –
dovrebbe occuparsi direttamente di:
- protezione dei dati degli utenti statunitensi e gestione dell’infrastruttura;
- sicurezza del codice e controllo sugli aggiornamenti;
- moderazione dei contenuti e procedure di compliance;
- misure specifiche sul tema più sensibile: il sistema di raccomandazione.
In alcune ricostruzioni, il pacchetto comprende anche l’idea di riaddestrare i modelli di raccomandazione su dati USA,
per ridurre il rischio (politicamente percepito) di interferenze esterne: un punto citato da AP.
Chi mette i soldi e chi prende le quote
Qui il colpo di scena è doppio: da un lato c’è il cuore americano dell’operazione, dall’altro una presenza finanziaria mediorientale.
La fotografia più ricorrente nelle fonti racconta questo schema:
- Oracle, Silver Lake e MGX (fondo con base ad Abu Dhabi) arrivano complessivamente al 45%;
- una quota intorno al 30,1% resta ad affiliati degli attuali investitori di ByteDance;
- ByteDance scende a una partecipazione di minoranza, circa 19,9%.
Tradotto: ByteDance non sparisce, ma viene spinta sotto la soglia simbolica del 20% che, in molte architetture di governance,
“suona” come minoranza senza controllo. È anche il punto su cui si giocherà il dibattito nei prossimi mesi: minoranza finanziaria non significa
necessariamente minoranza d’influenza, specie quando in ballo c’è tecnologia proprietaria.
Il ruolo di Oracle: da “custode dei dati” a perno dell’accordo
Oracle non entra in scena oggi: da anni viene descritta come partner di sicurezza per l’archiviazione e la gestione dei dati degli utenti USA.
Nell’intesa firmata, il suo ruolo diventa più centrale: diverse fonti la indicano come perno
per la componente di data security e “software assurance”.
Anche il mercato ha annusato l’importanza della partita: Barron’s segnala un balzo del titolo Oracle dopo la notizia,
segno che gli investitori leggono l’operazione come un rafforzamento strategico del gruppo nel perimetro cloud e sicurezza.
Il nodo vero: algoritmo sotto chiave o in prestito?
È la domanda che non molla nessuno: chi controlla il “motore” che decide cosa vedi?
The Guardian e Reuters riportano che restano interrogativi sul grado di accesso e influenza residua di ByteDance
sulle componenti più delicate. In alcune ricostruzioni si parla di licenze, audit e barriere tecniche; in altre, di un equilibrio ancora da verificare
“nei fatti”, quando la joint venture sarà operativa e sottoposta a controlli.
E qui entra in gioco la politica: la senatrice Elizabeth Warren ha già criticato l’idea di un passaggio di controllo verso grandi capitali
e figure influenti del mondo tech, rilanciando il tema di una possibile “cattura” della piattaforma da parte dei miliardari.
La cronologia: dal 2020 alla stretta del Congresso
Per capire perché si arriva a un accordo “chirurgico”, bisogna riavvolgere il nastro:
- 2020: parte la prima grande offensiva politica negli USA per forzare ByteDance a cedere TikTok, con iniziative dell’amministrazione Trump.
- 24 aprile 2024: viene firmata la legge federale che impone il meccanismo “vendi o vieni bandito” per app controllate da “avversari stranieri” (richiamata da Reuters e Barron’s.
- 17 gennaio 2025: la Corte Suprema conferma la legittimità della norma nel caso TikTok v. Garland (sentenza pubblicata il 17 gennaio 2025).
- 2025: la trattativa si trascina tra proroghe e negoziati; CBS News (18 dicembre 2025) ricorda che l’applicazione del divieto è stata rinviata più volte, con un’estensione citata come arrivata fino a fine gennaio 2026.
- settembre 2025: emerge un accordo di principio USA-Cina sul perimetro dell’operazione, poi tradotto nei documenti firmati a dicembre.
In mezzo c’è un elemento costante: sicurezza nazionale. È l’argomento che regge l’intera impalcatura, e che la Corte Suprema richiama
nel ragionamento con cui considera la misura “drastica” ma mirata (sentenza del 17 gennaio 2025).
Cosa succede adesso: scadenze, controlli, possibili sorprese
La firma dell’accordo non è il traguardo, è il semaforo verde per l’ultimo rettilineo. La data chiave resta
22 gennaio 2026, indicata nel memo interno citato da Axios e ripresa da AP e Reuters.
Da qui a quel giorno, i punti che faranno notizia sono almeno quattro:
- governance: composizione del consiglio e poteri effettivi dei soci di minoranza;
- architettura tecnica: dove risiede davvero il controllo operativo su software e aggiornamenti;
- algoritmo: audit, licenze, retraining e livelli di accesso;
- via libera politico-regolatorio: eventuali condizioni aggiuntive e verifiche di sicurezza.
Il punto, in sostanza, è capire se la nuova TikTok “made in USA” sarà una piattaforma con autonomia reale o un compromesso raffinato,
dove la proprietà cambia ma l’influenza resta materia di interpretazione.
Perché la partita riguarda anche l’informazione
TikTok non è più “solo intrattenimento”: negli Stati Uniti è diventata un canale rilevante per consumo di contenuti e notizie,
soprattutto tra i più giovani. AP richiama la platea di oltre 170 milioni di utenti nel Paese:
numeri che spiegano perché ogni decisione su proprietà e regole di ingaggio sia inevitabilmente un tema di potere culturale,
oltre che economico.