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Se il telelavoro è un problema: i casi Alleanza Assicurazioni e DoValue

- di: Redazione
 
Se il telelavoro è un problema: i casi Alleanza Assicurazioni e DoValue
Quando, speriamo molto presto, riusciremo a lasciarci alle spalle la pandemia e le sue devastanti conseguenze, dovremmo interrogarci, mettendo da parte ipocrisie e convenienze, su quanto questo evento, inatteso e per questo ancora più difficile da contrastare, abbia stravolto le dinamiche del lavoro. Che non sono solo quelle legate alle attività imprenditoriali che hanno abbassato le saracinesche o che sono state costrette a un forte ridimensionamento del numero e della qualità dei dipendenti. La pandemia ha messo il Paese davanti ad una brutale accelerazione di modalità di lavoro che, come spesso accade, erano nell'aria, ma solo a livello di ipotesi di studio, usate talvolta per blandire o ammonire il personale.
A cominciare dall'adozione sistematica del telelavoro, sino a ieri applicato episodicamente da parte di aziende che, per questo, erano giudicate - in positivo - come visionarie.

Telelavoro: i casi Alleanza Assicurazioni e DoValue

Ma un conto è ricorrere al lavoro da casa come scelta, un'altra è ricorrervi senza che, intorno ad esso, fosse steso un preciso confine, un sistema codificato di norme, per evitare distorsioni potenzialmente perniciose per i dipendenti. Ed invece il telelavoro, lo smart working, il lavoro da casa o chiamiamolo come più ci aggrada, per migliaia di persone si è tradotto in ben altro, una condizione quasi punitiva, senza regole surrettizie che non quelle dettate dall'impossibilità di opporsi a richieste delle sedi centrale, che non sempre sono state consapevoli delle conseguenze di quel che chiedevano.
Di vertenze non ne sono esplose molte ufficialmente, relegando le proteste a qualche arrabbiatura, a qualche reclamo verbale. Ma mai, o quasi, portando la protesta al di fuori dell'azienda o, addirittura, all'attenzione del sindacato.

Ed invece la rabbia è esplosa e, cosa che oggi molti lavoratori lamentano, alle istanze dei dipendenti non sono seguite azioni concrete da parte delle aziende per venire loro incontro. Il motivo non è così banale come sembra, perché il telelavoro, non avendo regole se non quelle dei ''padroni'', si è spesso tradotto in una estensione abnorme dei tempi trascorsi davanti ad un video, con le ore che si sono accumulate senza che a questo seguisse alcuna gratificazione economica, facendo passare tutto attraverso il filtro del ''ma lavori da casa, non pensi che fortuna che hai?''.

I peana che si sono levati quando, con il manifestarsi della pandemia, sono state adottate le nuove tecniche di lavoro non in sede si sono via via annacquati, con l'evidenza di distorsioni e piccoli abusi.
Di esempi ne sono venuti a galla nelle ultime settimane e mesi e, purtroppo, senza che molto sia cambiato una volta che le proteste sono state rese pubbliche.
Un caso che non ha bisogno di commenti o chiose è quello che riguarda Alleanza Assicurazioni (del gruppo Generali), dove i dipendenti in smart working hanno delineato le loro condizioni di lavoro come inaccettabili.
Questa denuncia (che fa comunque parte di un più vasto e articolato pacchetto di rivendicazioni, di tipo economico e normativo) è stata affidata ai sindacati che, tra gli altri punti, hanno reclamato la ''regolamentazione della 'remotizzazione selvaggia' a cui abbiamo assistito dal diffondersi della pandemia, con il pagamento di 'ristori' per tutti (come avviene per i produttori Generali) e dotazione di supporti ergonomici ed elettronici per eliminare le conseguenze patologiche del lavoro da casa''.

Ora, si può anche dire che le rivendicazioni aprono anche a richieste economiche, ma la sostanza è che il ricorso al telelavoro è stato deciso senza prima approntare un quadro di regole. E questo ha colpito essenzialmente i lavoratori, che si sono trovati in una condizione inattesa, ''forzata'' dalla situazione del Paese.
Ma anche su altri tavoli, il ricorso al lavoro da casa, come soluzione per i mali derivati alle aziende a causa della pandemia, ha provocato non il semplice broncio, ma l'avvio di un vero e proprio braccio di ferro tra sindacati e controparti padronali. Come è il caso di DoValue, che ai non esperti sembrerà un nome poco conosciuto, ma che è invece una consolidata realtà nel settore del recupero e gestione dei crediti deteriorati. Una società che è in salute, a dir poco (ricavi netti per quasi 339 milioni di euro, con un incremento del 36 per cento rispetto all'esercizio precedente). Una situazione che dovrebbe essere di soddisfazione per tutti quelli vi contribuiscono e che invece sta causando una guerra di religione che ha al centro non filosofia o ideologia, ma - ci risiamo - anche le nuove modalità di lavoro che sono state richieste/imposte al personale.

I sindacati, in tema di strategia, hanno fatto le loro scelte, chiedendo ai vertici di riattivare una corretta relazione dei rapporti con i dipendenti, anche perché - sostengono Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin - l'azienda ''non ha interesse nei confronti dei suoi dipendenti'', ''non ha a cuore il benessere e la valorizzazione del personale'' e ''punta tutto su logiche di profitto legate al mero contenimento dei costi e, pertanto, priva di una visione prospettica''.

Peggio di così, verrebbe da commentare, non potrebbe andare. Ed invece i sindacati si sono riservati un forte affondo anche sul piano dell'organizzazione del lavoro, laddove sostengono di essere stati destinatari della ''richiesta di aiuto dei propri colleghi vessati da carichi di lavoro insostenibili e che inchiodano le lavoratrici e i lavoratori ben oltre le sette ore e trenta di una normale giornata lavorativa (finanche quindici ore consecutive e per più di cinque giorni a settimana), con potenziali aumenti dei rischi operativi e, nondimeno, della salute degli stessi. Lo straordinario sommerso dello smart worker è diventata una prassi pericolosa''.
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