Sanità, Svimez: "Nel Mezzogiorno peggiori condizioni di salute"

- di: Barbara Leone
 
Al Sud i servizi di prevenzione e cura sono più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza, soprattutto per le patologie più gravi. Investire in Sanità dovrebbe tornare tra le priorità nazionali, correggendo il metodo di riparto regionale del Fondo Sanitario Nazionale sulla base degli indicatori di deprivazione. L’autonomia differenziata rischia di ampliare le disuguaglianze nelle condizioni di accesso al diritto alla salute. E’ questo, in sintesi, il quadro che che emerge dal Rapporto Svimez intitolato “Un Paese, due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla salute”, presentato oggi a Roma in una iniziativa promossa dalla Svimez, in collaborazione con Save the Children e curato da Luca Bianchi, Serenella Caravella e Carmelo Petraglia. Alla presentazione sono intervenuti Luca Bianchi direttore generale della Svimez, Nino Cartabellotta presidente Fondazione Gimbe, Annalisa Mandorino segretaria generale Cittadinanzattiva, Raffaela Milano responsabile programmi Italia - Europa Save The Children. Il report è stato presentato da Serenella Caravella ricercatrice Svimez. A coordinare la tavola rotonda è stato Antonio Fraschilla, giornalista di Repubblica.
Il report evidenzia che il Mezzogiorno, secondo gli indicatori BES (Benessere Equo e Sostenibile), è l’area del Paese caratterizzata dalle peggiori condizioni di salute. La speranza di vita mostra un differenziale territoriale marcato e crescente negli anni.

Sanità, Svimez: "Nel Mezzogiorno peggiori condizioni di salute"

Tra il 2010 e il 2022, la speranza di vita è aumentata, ma in misura minore al Sud: +0,5 anni in più, contro il +1 del Centro e Nord-Ovest e il +0,9 del Nord-Est. Nel 2022, la speranza di vita alla nascita per i cittadini meridionali era di 81,7 anni (79,5 per gli uomini e 83,9 per le donne), circa 1,3 anni in meno rispetto al Centro e Nord-Ovest, 1,5 nel confronto con il Nord-Est. La regione con la più bassa aspettativa è la Campania: 83,1 anni per le donne (contro una media nazionale di 83,7) e 78,8 per gli uomini (il dato nazionale è di 80,5). La speranza di vita più elevata si registra nella Provincia autonoma di Trento, dove le donne vivono mediamente fino a 86,3 anni e gli uomini fino a 81,9 anni. Analoghi divari Nord-Sud si osservano per la mortalità evitabile. Nel Mezzogiorno, dal 2010 al 2019, il numero di decessi trattabili e/o prevenibili (grazie a una assistenza sanitaria tempestiva ed efficace e adeguati interventi di prevenzione secondaria) è diminuito da 21,8 a 18,2 per 10.000 abitanti, soprattutto per effetto del calo registrato per gli uomini (da 29,7 a 24,1). Una riduzione simile a quella del Centro (da 19,3 a 16,1), ma sensibilmente inferiore a quella di Nord-Ovest (da 17,9 a 15,9) e Nord-Est (da 18,7 a 14,7). Su base regionale, quattro regioni del Centro-Sud presentano i valori più elevati per mortalità evitabile delle donne: Campania (14,7), Sicilia (13,4), Lazio (12,6) e Calabria (12,2). Per gli uomini, le prime tre regioni sono tutte del Mezzogiorno: Campania (26,2), Sardegna (25,3), Calabria (24,9).

Anche la mortalità per tumore è più elevata al Sud. Nel 2020, il tasso di mortalità (per 10.000 abitanti) era dell’8,8 nelle regioni meridionali (8,2 per le donne e 9,6 per gli uomini), significativamente più alto rispetto alle altre aree del Paese: 7,8 nel Centro (7,4 per le donne e 8,3 per gli uomini) e nel Nord-Ovest (7,2 per le donne e 8,3 per gli uomini), 7,1 nel Nord-Est (6,6 per le donne e 7,6 per gli uomini). Questo differenziale è cresciuto nell’ultimo decennio per effetto di un calo della mortalità oncologica sensibilmente più contenuto nelle regioni meridionali: - 0,9 punti, contro -1,9 al Centro e -2,3 nelle due ripartizioni del Nord.
L’indagine evidenzia inoltre come dai dati regionali sulla spesa pro capite in sanità di fonte Conti Pubblici Territoriali riferiti al 2021, emergano importanti differenze tra territori, sia per la spesa destinata alla gestione corrente che per quella in conto capitale. A fronte di una media nazionale di 2.140 euro, la spesa corrente più contenuta si registra in Calabria (1.748 euro), seguita da Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro). Per la parte di spesa in conto capitale, i valori più bassi si ravvisano nuovamente in Campania (18 euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27), mentre il dato nazionale si attesta su una media di 41 euro. Tra il 2010 e il 2021, risultano livelli di risorse allocate alla salute di ogni cittadino comparativamente inferiori nei SSR del Mezzogiorno rispetto a quelli del Centro-Nord. Questo differenziale territoriale di spesa corrente si conferma sia per le Regioni a Statuto Ordinario (RSO) che per quelle a Statuto Speciale (RSS). Tra le RSO, il gap di spesa corrente sfavore vole ai cittadini meridionali del Sud si è ridotto dal 17 all’11% tra il 2010 e il 2021 (-337 euro pro capite nel 2010; -210 euro pro capite nel 2021), per effetto di una riduzione del dato del Nord a parità di spesa delle RSO meridionali. Tra le RSS, viceversa, il gap è cresciuto dal 14 al 15% (-284 euro pro capite nel 2010; -324 euro pro capite nel 2021), per una crescita più sostenuta della spesa nelle RSS del Nord. Per la spesa pro capite per investimenti, si osservano analoghi differenziali territoriali – più ampi tra RSS – sfavorevoli al Sud.

Nel decennio si evidenzia un decremento generalizzato, ma più pronunciato per le RSS settentrionali (da 140 a 92 euro nell’arco del decennio) che però partivano da valori molto più elevati. Risultano invece più allineate le dinamiche territoriali di spesa per le altre regioni. In generale, si osserva una progressiva riduzione della spesa per investimenti fino al 2020, con un valore dimezzato rispetto ai livelli del 2010. Nel 2021, per effetto della crisi pandemica, la spesa sanitaria in conto capitale quasi raddoppia, raggiungendo in termini reali i 3,6 miliardi (erano 1,7 nel 2019). Il differenziale territoriale a sfavore delle RSO meridionali è pronunciato: nel 2021, la spesa pro capite in conto capitale del Sud è circa il 60% di quella del Centro-Nord, nel 2010 la percentuale era del 53%.
Anche i livelli di assistenza sono più carenti e i servizi sanitari di minore qualità nel Mezzogiorno. L’ultimo monitoraggio predi sposto dal Ministero della Salute per il 2021 evidenzia che, con l’eccezione di Puglia, Abruzzo e Basilicata, le regioni del Mezzogiorno sono inadempienti nel garantire l’erogazione dei LEA, vale a dire che in almeno uno dei tre ambiti di assistenza (prevenzione, distrettuale e ospedaliera) non raggiungono il punteggio minimo (60 su una scala tra 0 e 100).

Anche secondo il Rapporto 2023 del CREA Sanità, le performance sono molto eterogenee tra SSR, e particolarmente insoddisfacenti per il Sud. L’indice composito del CREA, che si basa su indicatori di appropriatezza, efficienza nella spesa, equità e outcome, varia da un massimo di 59 (fatto 100 il risultato massimo raggiungibile) a un minimo di 30: il risultato migliore lo ottiene il Veneto e il peggiore la Calabria. Ordinando i diversi SSR in ordine decrescente risultano tre gruppi di regioni. Veneto, P.A. di Trento e P.A. di Bolzano mostrano standard di tutela della salute significativamente migliori (55-59). Al secondo gruppo appartengono Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna, Lombardia e Marche, con valori compresi tra 47 e 49. Nel terzo gruppo si collocano Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Umbria, Molise, Valle d’Aosta e Abruzzo (37-42). Infine, per sei regioni (Sicilia, Puglia, Sardegna, Campania, Basilicata e Calabria) risultano livelli di performance inferiori a 32. Anche la fotografia ISTAT 2022 sul grado di soddisfazione per le prestazioni dei SSR conferma la minore qualità, percepita dall’utenza, dei servizi sanitari offerti nel Mezzogiorno. Le persone molto soddisfatte dell’ultima visita specialistica sono oltre il 77% nel Nord, 4 punti percentuali in più rispetto al Centro, ben 11 in più nel confronto con il Mezzogiorno. Differenze anche più ampie si registrano per la soddisfazione degli utenti per gli accertamenti specialistici: 79% al Nord, 72% al Centro e 66% nel Mezzogiorno. Scende al 64% la percentuale di pazienti meridionali soddisfatti dell’ultimo ricovero ospedaliero, mentre nel Centro e al Nord il valore si attesta rispettivamente a 68 e 78%. La qualità dell’assistenza infermieristico ospedaliera è valutata come molto soddisfacente da 4 italiani su 10, ma anche in questo caso i livelli di soddisfazione sono più bassi al Sud.

La percentuale di persone molto soddisfatte varia da un massimo del 59% (Valle d’Aosta) a un minimo del 16% (Lazio). Tra le regioni del Sud, l’unica a scavallare la media nazionale è l’Abruzzo (44%); a mostrare i risultati più deludenti sono Puglia (29%), Calabria (28%), Basilicata (26%) e Campania (17%).
Nell’ambito della prevenzione oncologica, i divari sanitari sono particolarmente marcati: la scarsa adesione al Sud riflette anche le carenze di offerta. Gli screening oncologici gratuiti a scopo preventivo13 sono fondamentali per scongiurare l’insorgenza dei tumori poiché forniscono diagnosi precoci che evitano il ricorso a interventi invasivi e riducono la mortalità oncologica14. Recependo le direttive internazionali, dal 2007, l’Italia ha adottato il Piano nazionale della prevenzione (PNR) al quale tutti i SSR sono tenuti ad aderire presentando i propri piani regionali in sede d’intesa Stato-Regioni. Ma anche in questo ambito, capacità di offerta e tassi di adesione alle campagne di prevenzione sono sistematica mente più bassi nel Mezzogiorno, specialmente nel caso degli screening mammografici (controlli a cadenza biennale particolarmente raccomandati per le donne tra i 50 e i 69 anni, per le quali il tumore al seno rappresenta la più diffusa patologia oncologica). Secondo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), nel biennio 2021-2022, in Italia circa il 70% delle donne di 50-69 anni si è sottoposta ai controlli: circa due su tre lo ha fatto aderendo ai programmi di screening gratuiti.

La copertura complessiva è dell’80% al Nord, del 76% al Centro, ma scende ad appena il 58% nel Mezzogiorno. La prima regione per copertura è il Friuli-Venezia Giulia (87,8%); l’ultima è la Calabria, dove solamente il 42,5% delle donne di 50-69 anni si è sottoposto ai controlli. I dati relativi agli screening organizzati dai SSR confermano i profondi divari regionali nell’offerta di servizi che dovrebbero essere garantiti in maniera uniforme in quanto compresi tra i LEA. La quota di donne che ha avuto accesso a screening organizzati oscilla tra valori compresi tra il 63 e il 76% in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, P.A. di Trento, Umbria e Liguria e circa il 31% in Abruzzo e Molise. Le quote più basse si registrano in Campania (20,4%) e in Calabria, dove le donne che hanno effettuato screening promossi dal Servizio Sanitario sono appena l’11,8%, il dato più basso in Italia. Sempre in Calabria, risulta particolarmente elevata la quota di donne che hanno effettuato invece lo screening mammografico su iniziativa spontanea: circa il 30% (un dato simile si ravvisa in Campania). Ampliare e rafforzare l’offerta di screening gratuiti dovrebbe rappresentare una priorità per gli investimenti sanitari pubblici, per garantire equità e parità di accesso e trattamento ai cittadini, riducendo le disparità tra SSR. Come evidenziato nel rapporto dell’ISS del 2021 “I numeri del cancro in Italia“, infatti, gli screening effettuati privatamente non beneficiano dei controlli di qualità ai quali sono invece costantemente sottoposti gli screening realizzati nell’ambito dei programmi pubblici.

In questo desolante quadro non stupisce, dunque, l’aumento in termini di numeri di “fughe” dal Sud per ricevere assistenza in strutture sanitarie del Centro e del Nord, soprattutto per le patologie più gravi. Nel 2022, dei 629mila migranti sanitari (volume di ricoveri), il 44% era residente in una regione del Mezzogiorno. Per le patologie oncologiche, 12.401 pazienti meridionali, pari al 22% del totale dei pazienti, si sono spostati per ricevere cure in un SSR del Centro o del Nord nel 2022. Solo 811 pazienti del Centro-Nord (lo 0,1% del totale) hanno fatto il viaggio inverso. È la Calabria a registrare l’incidenza più elevata di migrazioni: il 43% dei pazienti si rivolge a strutture sanitarie di Regioni non confinanti. Seguono Basilicata (25%) e Sicilia (16,5%). Al Sud, i servizi di prevenzione e cura sono dunque più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza. Il report evidenzia infine come l’obiettivo dell’equità orizzontale della sanità venga ulteriormente messo a rischio dal progetto di autonomia differenziata. Sulla base delle risultanze del Comitato per l’individuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, in particolare, tutte le Regioni a Statuto Ordinario potrebbero richiedere il trasferimento di funzioni, risorse umane, finanziarie e strumentali ulteriori rispetto ai LEA in un lungo elenco di ambiti: gestione e retribuzione del personale, regolamentazione dell’attività libero-professionale, accesso alle scuole di specializzazione, politiche tariffarie, valutazioni di equivalenza terapeutica dei farmaci, istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi. Come noto, sottolinea il Rapporto Svimez, in tutti questi ambiti, in quanto extra-LEP, il disegno di legge Calderoli prevede che «si possa dar corso fin da subito ai negoziati per il trasferimento di funzioni, risorse umane, finanziarie e strumentali dalle regioni che ne facciano richiesta». La concessione di ulteriori forme di autonomia, potrebbe determinare ulteriori capacità di spesa nelle Regioni ad autonomia rafforzata, finanziate dalle compartecipazioni legate al trasferimento di funzioni e, soprattutto, dall’eventuale extra-gettito derivante dalla maggiore crescita economica. Tutto ciò, in un contesto in cui i LEA non hanno copertura finanziaria integrale a livello nazionale e cinque delle otto Regioni del Mezzogiorno risultano inadempienti, determinerebbe una ulteriore differenziazione territoriale delle politiche pubbliche in ambito sanitario. Con l’autonomia differenziata si rischierebbe dunque di aumentare la sperequazione finanziaria tra SSR e di ampliare le disuguaglianze interregionali nelle condizioni di accesso al diritto alla salute.
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