La speculazione finanziaria alimenta la disoccupazione

- di: Roberto Pertile
 

Dopo anni sofferti e dolorosi per molti, i nostri politici auspicano finalmente l’uscita dal molto citato “tunnel” della crisi economica che ha investito il nostro paese con particolare veemenza.
Al netto di speranze e facili entusiasmi, può essere utile fare qualche riflessione … e un passo indietro.
Già negli anni Novanta, nel nostro paese, una crisi istituzionale, meglio nota come “tangentopoli”, aveva messo in evidenza le debolezze di un capitalismo  che si reggeva su basi fragili, dando inizio, così, ad una fase di deterioramento molto profondo per le grandi aziende italiane. Imprese come Olivetti, il gruppo Ferruzzi, la Montedison, la Fiat, la Pirelli vennero messe in discussione nella loro configurazione e si trovarono ad amministrare il proprio declino, mentre il baricentro del sistema produttivo italiano si spostava in direzione delle piccole-medie imprese. Fu cosi che le grandi aziende abbandonarono progressivamente i loro piani di sviluppo industriale  pur nella consapevolezza della necessità di crescita della loro dimensione, e di incremento delle quote di esportazione sui mercati internazionali, non seppero operare gli opportuni investimenti, trovandosi, quindi, nell’impossibilità di difendersi dai concorrenti esteri, e diventando marginali al mercato.
Ne conseguì  un profondo cambiamento delle basi produttive del sistema Italia.

Le grandi imprese italiane dovettero ripiegare sul mercato domestico, ridimensionando le proprie prospettive all’estero e perdendo, così, una consistente parte del commercio internazionale; tendenza che solo in questi ultimi anni si sta invertendo.
Il ripiegamento sul mercato domestico fu favorito anche, in parte, dal boom della Borsa negli anni precedenti. Le grandi imprese, e non solo loro, canalizzarono in Borsa il risparmio, a loro esclusivo vantaggio, per attività finanziarie speculative. Si svilupp, così, un processo di finanziarizzazione del sistema produttivo di medio-lungo termine.
Per tutelare la propria redditività, le aziende italiane si impegnano nella cosiddetta “finanza cartacea” tale da divenire progressivamente, anche dopo la crisi del 2008, una costante del sistema seguendo, in questo, l’esempio degli Stati Uniti. Globalmente nel 2011, il valore dei “derivati”  era pari a 648.000 miliardi di dollari; vale a dire 9/10 volte il PIL del mondo (secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali).

Negli USA i “derivati”, cioè lo strumento che ha consentito il credito facile, negli anni pre-2008, erano stati, tra l’altro, una risposta alla soluzione delle crescenti disuguaglianze sociali. Si pensò di favorire l’indebitamento privato, per esempio per l’acquisto della prima casa. Anche in Italia, si  incentivare la spesa corrente.
Proprio partendo dagli USA, la crisi si è allargata a tutte le economie globalizzate. Fu allora che le autorità istituzionali statunitensi adottarono per prime il “quantitative easing” (qe); cioè, l’immissione sul mercato di una quantità molto elevata di carta-moneta. Ciò non bastò comunque a scongiurare una crisi internazionale non solo senza precedenti, ma, anche, lo sappiamo di difficilissima soluzione.
Il “qe” avrebbe dovuto contribuire alla riduzione della finanziarizzazione dell’economia, ma così non è stato. Il “patto” tra le banche centrali e gli investitori istituzionali ha innescato la cosiddetta “leva finanziaria”: abbassando i costi del finanziamento, quindi dell’indebitamento, i patrimoni reali finanziabili sono  oggetto di alti guadagni. Tutto a vantaggio dei gruppi sociali più agguerriti che vedono nella finanza speculativa il centro del loro interesse.
Stampare moneta significa creare posti di lavoro? Durante la crisi del 2008, per finanziare il sistema bancario, è stata stampata carta moneta in quantità molto elevata, cosa che continua anche oggi. 

Questa creazione di liquidità ha favorito lunghi rialzi speculativi nel mercato dei capitali, dove un rialzo in orsa produce, normalmente, effetti positivi per i più ricchi, perché possiedono la stragrande maggioranza delle azioni quotate. Così, viene artificialmente gonfiato il prodotto interno lordo senza migliorare le strutture produttive.
L’uscita dalla crisi e la ripresa dello sviluppo economico, dunque, corrono il rischio di essere l’occasione di una grande fortuna per gli appartenenti (pochi) alla categoria dei detentori della stragrande maggioranza del reddito.
La crisi del 2008, imputabile ai banchieri USA, ha provocato danni incalcolabili al sistema internazionale, rendendo evidente la dimensione puramente speculativa delle azioni delle grandi banche che continua anche oggi.
L’intera collettività internazionale ha pagato somme ingenti per salvare le banche. Delle enormi risorse impiegate per evitare il crollo del sistema bancario, poche sono arrivate all’economia sotto forma di finanziamenti alle imprese ed alle famiglie.

I banchieri colpevoli, per le loro speculazioni, dei fallimenti e dei disastri economici di clienti e consumatori, non hanno pagato un prezzo adeguato, che è ricaduto, invece, sulle spalle dei clienti delle banche e dei consumatori. Si evince dalla stampa internazionale che l’ex numero uno della banca di affari fallita “Lehman” continui tuttora a fare affari d’oro alla Borsa di New York.
La finanza speculativa quindi continua ad avere molto spazio nell’economia, anche se è chiaro ed evidente che la finanziarizzazione stessa sia una delle principali cause del sensibile rallentamento della crescita economica, sottraendo di fatto importanti risorse all’economia reale e al fattore lavoro.

Urge quindi separare i banchieri del “rischio speculativo” dalle banche virtuose che devono essere ri-indirizzate, per il loro business, agli investimenti nell’economia reale: si tratta, quindi di ridefinire le relazioni tra finanza economia reale per dare una risposta ai danni ed alle ingiustizie del passato ed approdare ad una nuova coesione sociale.
Va ricostruito il rapporto democratico con le Istituzioni superando le profonde disuguaglianze prodotte soprattutto dalla finanziarizzazione. Urgono interventi di politica economica che neutralizzino gli squilibri del mercato per una nuova legittimazione sociale, dove il profitto non sia l’unico parametro di riferimento.
Senza questo passaggio, il tunnel della crisi rischia di allungarsi ancora un bel pò.

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