Ernesto Maria Ruffini lascia l'Agenzia delle Entrate: un addio che fa male alle istituzioni

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Ernesto Maria Ruffini, dimissionario direttore dell’Agenzia delle Entrate, se ne va con una dichiarazione amara e lucida che non lascia spazio a fraintendimenti: «Il clima è cambiato». Una frase semplice, ma gravida di significati. La lotta all’evasione fiscale, pietra angolare di ogni Stato che si rispetti, sembra oggi essere percepita come un affronto, un gesto quasi sovversivo, piuttosto che un atto dovuto di giustizia sociale.

Ernesto Maria Ruffini lascia l'Agenzia delle Entrate

Ruffini non accusa né si difende. Si limita a fotografare una realtà disarmante: la narrazione tossica che dipinge i funzionari pubblici come oppressori, l’Agenzia delle Entrate come un mostro vorace, e gli evasori come moderni martiri, vittime di uno Stato predatorio. Parole che pesano come macigni, pronunciate da chi ha dedicato anni a cercare di trasformare un apparato spesso inefficiente in una macchina trasparente e funzionale, e che ha ottenuto risultati innegabili, come il recupero record di 31 miliardi di euro nel 2023.

Ma tutto questo non è bastato. Perché in un Paese come il nostro, che troppo spesso considera le tasse un’imposizione arbitraria e non un dovere civico, Ruffini è diventato il bersaglio di una retorica populista che banalizza la giustizia fiscale e strizza l’occhio agli evasori.

Ruffini lascia, e con il suo addio ci lascia anche una domanda scomoda: chi ha deciso che combattere l’evasione fiscale debba essere interpretato come una colpa? Chi ha permesso che la narrazione si capovolgesse, trasformando chi evade in un eroe e chi cerca di far rispettare le regole in un aguzzino?

Eppure, Ruffini non si fa trascinare nella polemica sterile. Nonostante i mormorii di un suo possibile ingresso in politica, lui mette subito le cose in chiaro: «Non scendo e non salgo da nessuna parte». Nessuna discesa in campo, nessuna carriera alternativa. Resta, però, la ferma intenzione di continuare a parlare, di partecipare al dibattito pubblico come cittadino.

Il vuoto che lascia è profondo. Non è solo la perdita di un servitore dello Stato competente e rigoroso, ma il simbolo di un problema più grande: la perdita di fiducia nelle istituzioni, la difficoltà di portare avanti battaglie difficili in un clima sempre più ostile.

Chi prenderà il suo posto? La domanda non è retorica, ma assume un peso specifico enorme. Perché il successore non erediterà solo un ufficio, ma una missione. E soprattutto, un ambiente avvelenato da sospetti, diffidenze e una narrazione pericolosa che rischia di vanificare anni di lavoro.

Ruffini se ne va con la schiena dritta. Resta la sua lezione, per chi vorrà ascoltarla: la lotta all’evasione fiscale non è solo una questione economica, ma una battaglia per la dignità delle istituzioni e per la giustizia sociale. Una battaglia che, oggi, sembra aver perso uno dei suoi migliori combattenti.

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