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Quanto davvero pagano le multinazionali Usa in Italia

- di: Bruno Coletta
 
Quanto davvero pagano le multinazionali Usa in Italia
I numeri del CbC report tra ricavi globali, utili e gettito nel Belpaese.

Le grandi multinazionali statunitensi versano in Italia circa 2 miliardi di dollari di imposte. A prima vista può sembrare una cifra rilevante, ma basta metterla a confronto con i ricavi e gli utili globali per capire che, in proporzione, si tratta di una quota minimale del contributo fiscale complessivo dei colossi Usa.

Secondo gli ultimi dati resi pubblici dall’Internal Revenue Service (IRS) e rilanciati dalla webzine FiscoOggi, i 1.966 maggiori gruppi multinazionali con sede negli Stati Uniti dichiarano nel complesso circa 27.000 miliardi di dollari di ricavi mondiali, di cui oltre 8.000 miliardi realizzati fuori dagli Usa, tra Europa, Asia, Africa, America Latina, Canada e Oceania.

Il quadro si completa con gli utili: 2.900 miliardi di dollari di utili ante imposte e circa 14.000 miliardi di utili accumulati, cioè profitti generati nel tempo e non distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi, che rimangono nelle casse aziendali come riserve e margine di manovra finanziaria.


Che cos’è il Country by Country report

La fotografia arriva dal meccanismo di rendicontazione annuale Country by Country (CbC), introdotto a seguito dell’adesione degli Stati Uniti al progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) promosso dall’OCSE per contrastare erosione di base imponibile e spostamento artificiale dei profitti.

Il CbC report è un obbligo che riguarda le società che fanno da capogruppo di gruppi multinazionali con fatturato annuo pari o superiore a 850 milioni di dollari nel periodo fiscale precedente. Queste imprese devono compilare il Form 8975, indicando per ciascuna giurisdizione fiscale in cui operano:

  • ricavi globali e ricavi generati in quello specifico Paese;
  • utile o perdita prima delle imposte;
  • imposte pagate e imposte maturate;
  • numero di dipendenti e principali attività svolte.

L’obiettivo è chiaro: offrire alle amministrazioni fiscali una mappa precisa della distribuzione geografica di profitti e tasse, così da individuare eventuali pratiche di profit shifting, ossia il trasferimento di utili verso Paesi a bassa fiscalità.


Una galassia di 209.000 società controllate

Il report mette in luce anche la dimensione della presenza globale dei gruppi Usa. Le multinazionali considerate controllano complessivamente circa 209.000 società sparse in tutto il mondo. Alcuni Paesi ospitano concentrazioni particolarmente alte di controllate:

  • Regno Unito: circa 16.000 entità;
  • Canada: oltre 7.000 società;
  • Cina: circa 6.000 controllate;
  • Paesi Bassi: quasi 6.000 entità;
  • Germania: oltre 5.000 controllate.

In questo mosaico globale, l’Italia ospita poco più di 2.100 società controllate da grandi gruppi statunitensi. Una presenza forte, diffusa in settori chiave come manifattura avanzata, tecnologia, farmaceutica, energia, servizi digitali e grande distribuzione.


Perché 2 miliardi di tasse in Italia appaiono pochi

Se confrontiamo i 2 miliardi di dollari versati al fisco italiano con i 27.000 miliardi di ricavi globali, la proporzione appare subito sbilanciata. Si tratta di una quota minima rispetto alla capacità economica complessiva dei gruppi coinvolti.

Da un lato, è vero che la tassazione si concentra nei Paesi dove viene effettivamente generata la maggior parte dei profitti; dall’altro, diversi studi internazionali hanno dimostrato come, in molti casi, le multinazionali sfruttino le differenze tra regimi fiscali per concentrare utili in giurisdizioni con aliquote molto basse o con regimi agevolativi particolarmente generosi.

Ricerche indipendenti stimano che a livello globale siano stati spostati in anni recenti centinaia di miliardi di dollari di profitti verso Paesi dove il carico fiscale effettivo scende anche sotto il 10%. Questo determina un’erosione del gettito nei Paesi a tassazione più alta, come l’Italia, e alimenta il dibattito sul cosiddetto fair tax, la tassazione equa delle big corporation.


Il nodo del gettito mancante e la concorrenza con le Pmi

La cifra di 2 miliardi di dollari di imposte pagate in Italia si inserisce in un contesto in cui analisi e rapporti stimano, nell’arco di alcuni anni, un potenziale mancato gettito legato alle strategie di pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali. Una parte dei profitti generati in Italia potrebbe, in sostanza, finire contabilizzata altrove grazie a prezzi di trasferimento, royalties, licenze, finanziamenti infragruppo e altri strumenti perfettamente legali ma molto discussi sul piano dell’equità.

La conseguenza è un effetto distorsivo sulla concorrenza. Le piccole e medie imprese italiane, che non dispongono della stessa capacità di ottimizzazione fiscale internazionale, si trovano a sopportare un carico fiscale effettivo più elevato, mentre i grandi gruppi globali beneficiano di un’aliquota reale spesso più bassa rispetto a quella nominale.

Per questo molti osservatori parlano di una doppia ingiustizia: verso i contribuenti che pagano fino all’ultimo centesimo e verso le imprese radicate sul territorio, che costituiscono l’ossatura economica del Paese ma non possono spostare con facilità profitti e sedi fiscali.


Reazioni e richieste di regole più stringenti

I dati del CbC report e le cifre rese note da FiscoOggi alimentano le richieste di maggiore trasparenza e di regole più severe sul piano internazionale. Esperti e associazioni attive sul fronte del fisco equo sottolineano che il semplice obbligo di rendicontazione non basta se non è accompagnato da strumenti efficaci di controllo e sanzione.

Le principali proposte in campo puntano su tre direttrici:

  • rafforzare lo scambio di informazioni tra autorità fiscali nazionali, per incrociare dati e individuare rapidamente anomalie nella distribuzione dei profitti;
  • irrobustire le regole sui prezzi di trasferimento all’interno dei gruppi multinazionali, per evitare che gli utili vengano spostati artificialmente dove si paga meno;
  • attuare e ampliare i meccanismi di tassazione minima globale, in modo da fissare una soglia al di sotto della quale la tassazione effettiva non possa scendere.

In questo contesto l’Italia, come altri Paesi europei, guarda con attenzione all’evoluzione del progetto di global minimum tax, che punta a un’aliquota minima effettiva per i grandi gruppi multinazionali. Se applicato in maniera rigorosa, potrebbe ridurre drasticamente la convenienza di spostare profitti verso paradisi fiscali o giurisdizioni ultra agevolate.


Cosa aspettarsi per il futuro

Nei prossimi anni la partita si giocherà su due fronti: da un lato, la capacità dei singoli Stati — Italia inclusa — di rafforzare gli strumenti di controllo e le risorse dedicate alla lotta all’elusione fiscale internazionale; dall’altro, la volontà politica a livello globale di sostenere davvero un sistema di regole comuni che limiti la concorrenza al ribasso in materia di imposte sulle imprese.

Nel frattempo, il dato dei 2 miliardi di dollari pagati in Italia dalle multinazionali Usa resta un segnale parziale ma significativo. Dice che il Belpaese attrae investimenti e genera profitti per i grandi gruppi, ma racconta anche di un margine enorme tra la ricchezza prodotta e il gettito che effettivamente arriva nelle casse pubbliche.

Ed è proprio in questo scarto che si gioca il futuro del dibattito sul fair tax: quanto devono contribuire, davvero, i colossi globali ai servizi pubblici e alle infrastrutture dei Paesi in cui operano e realizzano i loro profitti? La risposta, inevitabilmente, passerà dai prossimi negoziati internazionali e dalla capacità dei governi di trasformare i principi in norme vincolanti.

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