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Così Trump piega la giustizia Usa: pressioni, rimozioni e fedelissimi

- di: Marta Giannoni
 
Così Trump piega la giustizia Usa: pressioni, rimozioni e fedelissimi
Tutto insieme beve pepato: Trump piega la giustizia?

Un’accelerazione che cambia il quadro

La prospettiva di un’incriminazione dell’ex direttore dell’FBI James Comey per presunta falsa testimonianza durante la deposizione del 30 settembre 2020 al Congresso apre una fase nuova. Non è un episodio isolato: si inserisce in una linea che vede il potere esecutivo puntare a trasformare la giustizia in leva politica, con effetti dirompenti sugli equilibri tra istituzioni.

Pressioni, rimozioni, nomine di fedeli

Nel giro di poche settimane il presidente ha rimosso il procuratore Erik Siebert, scettico sull’ipotesi di procedere contro Comey, sostituendolo con Lindsey Halligan, figura di stretta fiducia. Una scelta che segnala la volontà di imprimere una direzione precisa agli uffici inquirenti, riducendo gli spazi di autonomia e piegando la catena di comando alla logica del “risultato”.

Quando la giustizia diventa palco politico

Il passo successivo è comunicativo: “Non mi darebbe alcun fastidio vederli arrestati”, ha affermato Donald Trump riferendosi a Comey e all’ex direttore della CIA, John Brennan. Dichiarazioni del genere alimentano una normalizzazione del linguaggio punitivo e spostano il confronto dal merito delle prove alla pubblica esibizione del potere.

La soglia critica: diritto, prove, garanzie

Al netto della tempesta politica, il nodo resta giuridico: un’eventuale contestazione di falsa testimonianza richiede la dimostrazione di materialità e dolo, oltre alla connessione con un procedimento formale. Il gran giurì ha il compito di verificare se il quadro probatorio sia sufficiente a sostenere un processo. Non è un passaggio formale: è la linea di demarcazione tra accusa legittima e strumentalità.

L’architettura dell’autoritarismo competitivo

Il rischio evocato dagli studiosi è quello di un “autoritarismo competitivo”: le procedure democratiche restano in piedi, ma la loro sostanza si consuma quando un attore dominante colonizza gli snodi decisionali, altera incentivi e costi per gli avversari, usa la macchina dello Stato per punire e per dissuadere. È un processo fatto di mosse incrementali: una rimozione oggi, una nomina domani, un’indagine spinta oltre il fisiologico dopodomani.

Il ruolo delle contropotenze

In questo scenario le garanzie non sono solo norme: sono persone e uffici che resistono. Il sistema americano conserva anticorpi — dal controllo giudiziario alla stampa indipendente — capaci di frenare derive. Ma la loro efficacia dipende dalla forza istituzionale e dalla qualità del dibattito pubblico. Se il clima diventa intimidatorio, anche i freni più robusti possono slittare.

Tutto insieme, beve pepato

La metafora rende l’idea: in un unico calice finiscono pressioni, fedeltà personali, retorica punitiva e ansia di resa dei conti. Il risultato è un cocktail che brucia e assuefa. Oggi l’attenzione è su Comey; domani potrebbe toccare ad altri. La domanda decisiva è se le istituzioni riusciranno a separare il diritto dalla vendetta prima che il confine svanisca del tutto.

Il punto politico

Al di là dei destini individuali, la posta è collettiva: l’indipendenza della giustizia come infrastruttura della democrazia. Un suo indebolimento non produce soltanto casi mediatici: disorienta i mercati, inasprisce la polarizzazione, svaluta la credibilità internazionale. In questa cornice, l’eventuale rinvio a giudizio di una figura di vertice come l’ex capo dell’FBI avrebbe un valore simbolico enorme, qualunque sia l’esito giudiziario.

Quel che resta da capire

Resta da vedere se ci sia un impianto probatorio in grado di reggere in aula. E resta da chiarire quanto l’agenda penale sia stata accelerata da calcoli politici o da scadenze tecniche. La qualità della democrazia si misura anche da qui: dalla capacità delle istituzioni di mostrare che nessuno è al di sopra della legge — ma che la legge non è al servizio di nessuno. 

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