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Regionali 2025, tre regioni per otto leader in bilico

- di: Bruno Legni
 
Regionali 2025, tre regioni per otto leader in bilico
Veneto, Campania e Puglia decidono il 3 a 3 tra centrodestra e campo largo e ridisegnano il futuro delle coalizioni verso referendum e politiche.

Veneto, Campania e Puglia non stanno solo scegliendo tre nuovi presidenti di regione. Con l’ultima tornata delle regionali 2025 si chiude il decennio politico di Zaia, De Luca ed Emiliano e si apre un’altra partita: quella dei rapporti di forza interni al centrodestra e al cosiddetto campo largo, con otto leader nazionali che usano il voto locale come banco di prova per il referendum sulla giustizia e per le politiche del 2027.

Il punteggio provvisorio del campionato delle Regioni è già scritto: due territori alla destra, uno alle opposizioni. Se in Veneto i numeri indicano un vantaggio netto del centrodestra, in Campania e Puglia il fronte progressista punta al pareggio, sognando un tre a tre che cambierebbe il racconto di questa fase della legislatura. Sullo sfondo, un Paese stanco, con l’astensione che rischia di restare protagonista e un governo deciso a trasformare il consenso territoriale in potere costituzionale.

Tre regioni, un test nazionale

Il voto di novembre chiama alle urne quasi 12 milioni di cittadini, con seggi aperti due giorni, dalla domenica al lunedì. Si vota per eleggere i presidenti di Regione e rinnovare i Consigli regionali, con un sistema maggioritario che assegna un premio alla coalizione vincente e soglie di sbarramento che possono lasciare fuori dal palazzo movimenti e liste borderline. Dietro i tecnicismi c’è un dato semplice: chi vince qui, detta per mesi l’agenda politica nazionale.

In Veneto finisce l’era Zaia: dopo tre mandati consecutivi, il governatore non è più rieleggibile. Al suo posto corre Alberto Stefani per il centrodestra, mentre il campo progressista schiera Giovanni Manildo a capo di una coalizione larga che va dal Partito democratico ai Cinque Stelle, fino alle sigle ecologiste e liberali. Attorno orbitano altre candidature, ma la vera battaglia è tra i due blocchi che si contendono una regione considerata da anni fortino del centrodestra.

In Campania, il test riguarda soprattutto la successione a Vincenzo De Luca. Qui la sfida è tra Roberto Fico, volto del campo progressista, ed Edmondo Cirielli, candidato del centrodestra. Il simbolismo è immediato: da una parte l’ex presidente della Camera legato alla stagione pentastellata, dall’altra il rappresentante di un blocco conservatore che vuole riconquistare il Sud dopo anni di dominio del governatore uscente.

In Puglia finisce il ciclo di Michele Emiliano. Il centrosinistra allargato punta sull’ex sindaco di Bari Antonio Decaro, sostenuto anche dai Cinque Stelle e dalle forze ecologiste, mentre il centrodestra si affida a Luigi Lobuono. A completare il quadro ci sono le candidature di Ada Donno e Sabino Mangano, che intercettano pezzi di elettorato critico verso i due fronti principali ma difficilmente determinanti per l’esito finale.

Gli ultimi sondaggi fotografano un quadro disomogeneo: Puglia tendenzialmente stabile sul fronte progressista, Campania in cui il vantaggio del campo largo si misura quasi più sulla capacità di mobilitare al voto che sui numeri, Veneto saldamente ancorato al centrodestra con una sfida interna tutta padana tra Lega e Fratelli d’Italia. Su questo palcoscenico si muovono gli otto protagonisti nazionali.

Giorgia Meloni e la spinta a trasformare il consenso in potere costituzionale

Per Giorgia Meloni il voto nelle tre regioni è meno un esame di metà mandato e più una verifica della tenuta della sua leadership dentro la coalizione. Portare Fratelli d’Italia a primeggiare anche in Veneto, storica roccaforte leghista, significherebbe blindare la premiership e ridimensionare le pulsioni autonomiste del Nord. Da tempo, attorno a Palazzo Chigi, il ragionamento è chiaro: se il centrodestra mantiene il controllo dei territori chiave, il passo successivo è usare quella forza per completare il cantiere delle riforme istituzionali.

La premier guarda a queste urne con un obiettivo preciso: uscire dalla tornata con la narrazione di una destra unita che domina il quadro, senza farsi logorare dalle rivalità interne. La tentazione di apparire come l’“asso pigliatutto” resta forte, ma ogni voto rosicchiato agli alleati può trasformarsi in frizione domani, quando si tratterà di discutere liste, collegi e candidature per le politiche 2027.

Il fronte successivo è quello del referendum sulla giustizia, destinato a diventare il nuovo crinale della polarizzazione. Se il governo riuscirà a presentarsi al voto referendario con alle spalle anche una solida mappa di governi regionali, il messaggio sarà semplice: non solo Palazzo Chigi, ma un’intera infrastruttura di potere territoriale a sostegno della riforma. In caso di inciampo, invece, il rischio è che proprio le Regioni diventino la retrovia da cui ripartono contestazione e fratture.

Non a caso, tra i collaboratori della premier, c’è chi ripete che il traguardo vero non è il pareggio con le opposizioni, ma la conferma di un blocco politico in grado di restare maggioranza ovunque conti: “Dobbiamo mostrare che l’asse del Paese è ancora qui”, ragiona uno degli strateghi più vicini a Meloni.

Matteo Salvini e il nodo veneto che vale la leadership del nord

Per Matteo Salvini la posta in gioco è personale. La corsa di Alberto Stefani alla guida del Veneto deve trasformarsi non solo in una vittoria del centrodestra, ma in un segnale chiaro: la Lega è ancora il partito di riferimento nel Nord-Est. Il problema è che Fratelli d’Italia, dopo aver insidiato i leghisti in Lombardia e Piemonte, si presenta alle urne con l’ambizione di scavalcarli anche sul terreno che per anni è stato il cuore del “partito del Nord”.

Stefani, sostenuto da una coalizione che tiene insieme Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e sigle autonomiste, è in vantaggio confortevole nei sondaggi. La vera partita, però, si gioca tra le liste. Se il Carroccio dovesse chiudere dietro FdI nel Veneto post-Zaia, la leadership di Salvini uscirebbe indebolita, con un partito già attraversato da malumori e insofferenze verso il suo spostamento su posizioni sempre più radicali.

L’altro elemento è il cosiddetto “fattore Vannacci”, il movimento del generale che parla a un elettorato identitario e rumoroso. Se questo mondo dovesse drenare voti solo dalla Lega, i colonnelli del Nord potrebbero presentare il conto al loro segretario. Da qui la necessità di usare la campagna veneta per raccontare un partito ancora radicato sul territorio, capace di parlare a imprenditori, amministratori locali, ceti produttivi. Salvini sa bene che una Lega ridotta a partito personale rischia di non arrivare in forma al 2027.

Non è un caso che nelle ultime settimane le sue apparizioni in Veneto si siano concentrate sui grandi classici della narrazione salviniana – sicurezza, infrastrutture, tasse – con il tentativo di ricucire con quel blocco sociale del Nord che in passato lo aveva portato a percentuali a doppia cifra e che oggi guarda con crescente curiosità all’ascesa di FdI.

Antonio Tajani e la rincorsa al primato dei moderati

Antonio Tajani ha un obiettivo lineare: dimostrare che Forza Italia è ancora il perno dell’area moderata e che non esiste solo come eredità simbolica di Silvio Berlusconi. Il voto in Campania e Puglia per lui vale doppio: sono regioni in cui la tradizione centrista e cattolico-democratica resta forte e dove gli azzurri, da sempre, rivendicano una classe dirigente diffusa sul territorio.

In Campania, alla corte di Edmondo Cirielli, e in Puglia, accanto a Luigi Lobuono, Tajani punta a tenere Forza Italia sopra la soglia psicologica che consente di presentarsi al tavolo nazionale da partner e non da comprimari. Il messaggio è chiaro: senza i voti dei moderati il centrodestra non vince, né a Sud né in Parlamento. Una linea che si traduce in un profilo politico a metà tra europeismo assertivo e rassicurazione dei ceti produttivi e professionali.

La concorrenza più insidiosa non viene solo dagli alleati, ma anche da Noi moderati di Maurizio Lupi, che in alcuni territori presidia lo stesso bacino culturale e sociale. Per Tajani, la sfida è mostrare che il suo partito è l’unico in grado di tenere insieme amministratori locali, mondo delle imprese, professionisti e voto d’opinione centrista. Se dalle urne dovesse uscire una Forza Italia stabilmente sopra il 7-8% nelle tre regioni, la sua voce nel dopo-voto si farebbe inevitabilmente più pesante.

Maurizio Lupi e la scommessa di esistere nel centrodestra

Maurizio Lupi ha scelto di non restare ai margini. La decisione di presentare Noi moderati in tutte le regioni al voto lo espone al rischio di figurare come il vaso di coccio della coalizione, ma è l’unica strada per smettere di essere percepito come semplice componente “aggiuntiva” dello schieramento. In Calabria e nelle prime regioni al voto ha già raccolto un bottino di consensi non trascurabile; ora in Campania, Puglia e Veneto si gioca il salto di qualità.

Gli incidenti di percorso non sono mancati, con loghi dimenticati o relegati in secondo piano nei manifesti unitari e qualche malumore nei rapporti con Forza Italia, che vede in Noi moderati un potenziale competitor diretto. Lupi, però, scommette sul tempo: continuare a presidiare lo spazio del centro cattolico e popolare, accettando il rischio di piccoli numeri oggi per costruire, domani, una forza politica riconoscibile e utile ai tavoli nazionali.

In prospettiva, il suo vero traguardo è un posto stabile nel cantiere del centro che prima o poi, nel dopo-Meloni e nel dopo-Schlein, tornerà al centro della discussione politica. Per questo ha moltiplicato le presenze in campagna elettorale soprattutto nel Mezzogiorno, dove la combinazione di voto personale e reti associative offre margini di crescita maggiori rispetto alle regioni del Nord.

Elly Schlein, il pareggio obbligato e l’unità fragile del campo largo

Per Elly Schlein il risultato delle regionali vale quanto un congresso permanente. Il suo mandato alla guida del Partito democratico si gioca su una promessa precisa: costruire un’alternativa competitiva alla destra e tenere unito il perimetro del campo largo. Il sogno iniziale di ribaltare i rapporti di forza con un “cinque a uno” è già sfumato; oggi la segretaria dem ha un obiettivo più modesto ma politicamente decisivo: chiudere con un tre a tre che consenta di dire che il vento sta cambiando.

La mappa le offre un’opportunità concreta: la Puglia appare orientata a confermare il fronte progressista, la Campania è una sfida impegnativa ma teoricamente alla portata, il Veneto resta terreno di resistenza più che di conquista. In questo schema, Schlein deve dimostrare due cose: di saper parlare a un elettorato largo – dai ceti urbani progressisti al voto popolare del Sud – e di saper governare le tensioni interne al perimetro di alleanze che va da Giuseppe Conte a Bonelli e Fratoianni.

Nel suo entourage lo sanno bene: una sconfitta netta in una delle due regioni meridionali riaprirebbe la discussione interna sul suo ruolo e spingerebbe molti dirigenti a cercare “un altro nome” per la sfida alla destra. Al contrario, una vittoria doppia a Sud darebbe fiato alla narrazione di una leader finalmente in grado di tradurre in risultati elettorali l’unità ritrovata delle opposizioni. Non a caso, in queste ultime settimane, la segretaria ha moltiplicato la sua presenza nelle piazze campane e pugliesi, insistendo su lavoro, servizi pubblici e difesa della sanità regionale.

Un parlamentare dem sintetizza così la posta in gioco: “Se usciamo da queste regionali con due regioni in più e senza fratture nel campo largo, nessuno potrà più permettersi di trattare Elly come una segretaria a termine”.

Giuseppe Conte tra laboratorio Campania e sogno di ritorno a palazzo Chigi

Giuseppe Conte ha scelto di legare il destino del Movimento 5 Stelle soprattutto alla Campania. Qui, la candidatura di Roberto Fico – figura simbolica della stagione grillina al governo – rappresenta allo stesso tempo un’opportunità e un rischio. Se Fico conquista il governo regionale, Conte potrà rivendicare la capacità dei Cinque Stelle di essere forza di governo in una delle regioni più popolose e complesse del Paese; se dovesse fallire, la domanda sul ruolo del Movimento nel fronte progressista tornerebbe a farsi insistente.

Conte sa che il Movimento non ha più il serbatoio di voti degli anni dell’“uno vale uno”, ma conserva un radicamento significativo nel Mezzogiorno, alimentato da anni di misure come il reddito di cittadinanza e da un profilo politico che insiste su temi sociali, ambiente e diritti. La sua presenza nelle piazze campane e pugliesi ha un doppio registro: sostegno leale alle candidature unitarie e rivendicazione di un’identità autonoma, soprattutto su lavoro precario, transizione ecologica e politiche fiscali.

La prospettiva di lungo periodo resta chiara: usare il buon risultato alle regionali come trampolino per le politiche 2027, presentandosi come perno necessario di qualsiasi alternativa alla destra. Il rischio è l’opposto: se il Movimento apparirà troppo appiattito sul Pd, una parte del suo elettorato potrebbe scegliere l’astensione o guardare altrove. Per questo, accanto alle foto di unità con Schlein, Conte continua a riservarsi spazi di autonomia programmatica e comunicativa.

Bonelli e Fratoianni, la sinistra che non vuole più essere marginale

Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, alla guida di Alleanza Verdi e Sinistra, si muovono in una posizione delicata: abbastanza vicini al Pd da non apparire settari, abbastanza distinti da conservare un profilo identitario. Nelle regionali 2025 hanno insistito su tre temi chiave: ambiente, diritti sociali e pace, con campagne mirate soprattutto nelle aree urbane e nei quartieri popolari, dove il voto di opinione progressista può ancora fare la differenza.

La loro sfida è duplice. Da un lato, superare ovunque le soglie di sbarramento per essere presenti nei Consigli regionali con gruppi autonomi o comunque rilevanti. Dall’altro, evitare di apparire come un semplice “sottotitolo” del campo largo. Per riuscirci, AVS ha puntato su candidature capaci di parlare a mondi diversi: dall’associazionismo climatico agli attivisti per i diritti civili, fino al sindacato diffuso nei servizi pubblici.

Se in Puglia e Campania il traino delle coalizioni guidate da Decaro e Fico offre un paracadute naturale, in Veneto per Bonelli e Fratoianni la partita è più rischiosa: qui il voto utile contro il centrodestra può schiacciare le liste più piccole. In compenso, un buon risultato nelle regioni più popolose darebbe ad AVS una forza negoziale maggiore nella definizione dei futuri collegi e delle alleanze parlamentari.

Un dirigente della sinistra laica lo riassume così: “O riusciamo a dimostrare che portiamo voti e contenuti che altrimenti non ci sarebbero, oppure verremo sempre trattati solo come un’appendice del Pd”. È questa consapevolezza a spingere Bonelli e Fratoianni a presidiare ogni occasione pubblica, dalle vertenze ambientali alle battaglie sul salario minimo.

Dopo il voto, referendum e politiche: perché questi numeri pesano

Quando si chiuderanno i seggi e inizierà lo scrutinio, la corsa a leggere i numeri non si concentrerà solo sui nomi dei governatori eletti. I radar di partiti e commentatori saranno puntati su tre indicatori decisivi: affluenza, rapporti di forza dentro le coalizioni, risultato complessivo tra destra e opposizioni.

Se il campo largo dovesse centrare il pareggio a tre a tre, Schlein e Conte potrebbero rivendicare la bontà della scelta unitaria e presentarsi al referendum sulla giustizia come fronte compatto, capace di contendere al governo la piazza e la narrazione del “popolo sovrano”. In caso contrario, le pressioni interne ai due maggiori partiti di opposizione per rivedere alleanze, leadership e linee programmatiche aumenterebbero in modo esponenziale.

Nel centrodestra, molto dipenderà da come si distribuirà il consenso tra Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati. Un nuovo sorpasso di FdI sulla Lega in Veneto avvicinerebbe il sistema politico italiano a un assetto sempre più centrato sulla figura di Meloni, riducendo gli spazi di manovra di Salvini e costringendo Tajani e Lupi a ricalibrare le loro strategie nel perimetro moderato.

Il voto regionale diventerà così la prima bozza di mappa per le politiche 2027. Le due coalizioni guarderanno ai flussi tra astensione e partecipazione, alla tenuta del voto giovanile e al comportamento delle grandi città rispetto alle aree interne. In gioco non ci sono solo tre governi regionali, ma la risposta a una domanda di fondo: l’Italia resta polarizzata tra due blocchi di forza simile o si avvia verso un nuovo sbilanciamento, con un campo destinato a dominare e l’altro condannato a inseguire?

La sera dello spoglio darà il verdetto aritmetico. La politica, il giorno dopo, dovrà trasformare quei numeri in scelte concrete: sul lavoro, sui servizi, sulla giustizia, sul ruolo dell’Italia in Europa. Le regionali 2025 saranno allora ricordate non solo come la fine dell’epoca di Zaia, De Luca ed Emiliano, ma come il momento in cui gli otto leader che oggi percorrono in lungo e in largo Veneto, Campania e Puglia hanno capito quanto davvero vale il loro peso nel futuro del Paese. 

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